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    La scena della liberazione dei rapiti
    Tre uomini. Smunti, pallidi, magrissimi, con gli occhi vuoti. Fanno fatica a camminare, gli hanno messo addosso una grottesca maglietta cachi e pantaloni fuori misura. Li costringono a prendere in mano il solito assurdo diploma e li obbligano anche a dire quattro parole di “ringraziamento” ai loro torturatori. Se si sbagliano a recitarlo li correggono. Intorno si aggirano dei personaggi in tuta mimetica con una fotocamera in mano, non si capisce se di Al Jazeera o di Hamas (probabilmente di entrambe) che intrecciano un balletto di passettini avanti e indietro ai prigionieri, una recita per passare per professionisti delle riprese. Come se fosse il red carpet di un festival. Sullo sfondo altre decine di giovani anch’essi col volto coperto di passamontagna nero alla Fantomas e in tutta mimetica nuova e ben stirata, armati di mitra. Sono spuntati fuori di nuovo i pick-up bianchi, quelli del 7 ottobre (ma dove li tenevano? Nascondere uniformi non è difficile, perfino le armi e le telecamere possono stare in qualche ripostiglio. Ma le macchine?). Del pubblico si vede qualche bambino vestito a festa, una donna che prende da un cestino dei fiori o dei confetti e li butta addosso agli sgherri. Il solito palco con striscione scritto in arabo, inglese ed ebraico che dice cose senza senso (“siamo all’indomani del futuro”). Sul palco arrivano obbedienti e ossequienti i delegati della Croce Rossa, che in un anno e mezzo non hanno avuto il tempo di visitare i rapiti, ma ora firmano i documenti di consegna, come se fosse una spedizione di Amazon. I rapiti questa volta non hanno la vitalità resistente delle ragazze rilasciate la settimana scorsa, stanno in piedi a stento. Non sanno ancora che a uno di loro, Or Levy hanno ucciso la moglie; all’altro, Eli Sharabi, tutta la famiglia (moglie, fratello e due figlie); al terzo, Ohad Ben Ami, hanno “solo” rapito la moglie ma l’hanno rilasciata in uno scambio dell’anno scorso.

    Nuda violenza
    A guardare questa scena non si è colpiti dalla grottesca coreografia militare, come nei rilasci precedenti dei rapiti, ma dalla nuda violenza, dalla ferocia sistematica, dalla distruzione dell’umanità. Siamo rimandati subito alle immagini del 7 ottobre e ancora più in là, a quelle della Shoah. Tutto il popolo ebraico soffre con questi uomini distrutti, si ritrova nel loro destino. Non ci può essere gioia nella liberazione, quando il dolore è tanto, solo immensa angoscia per loro e per gli altri rapiti, che siano sopravvissuti o siano stati assassinati e ne restino solo le salme, trattenute anch’esse da terroristi privi di ogni traccia di umanità. Quel che resta nel cuore è pietà per loro e ira per i loro aguzzini e per chi li ha fiancheggiati.

    Dov’era la fame e il genocidio
    Di fronte a queste immagini e a quelle correlative di gioia e festa per gli assassini che Israele ha dovuto rilasciare per liberarli, si squarcia la tela di menzogne propagandistiche che ha avvolto questa vicenda. A Gaza c’era sì la fame, c’era sì la violenza, c’era sì la volontà genocida di distruggere e di umiliare un popolo – ma era quella subita da queste persone rapite a casa loro, per strada o a una festa musicale. C’è stata all’inizio la violenza atroce dello stupro, della strage, dell’incendio, della distruzione di pacifici villaggi la cui colpa era solo di essere abitati da ebrei. Una violenza che si è poi prolungata per 411 giorni: la tortura quotidiana di persone trattenute senza ragione e senza diritto, ridotte alla fame, all’oscurità, alla schiavitù – sempre per la sola colpa di essere ebrei.

    La complicità
    Non conosciamo ancora i dettagli delle sevizie subite da questi tre uomini, ma abbiamo sentito abbastanza di quelle dei rapiti riscattati in precedenza. Non vale la pena di ripeterle qui. Bisogna dire invece che queste violenze, questi crimini contro l’umanità sono stati resi possibili anche da complicità che si vogliono nascondere. Innanzitutto quella dei “civili innocenti”, che tutti dicono di voler difendere. Li abbiamo visti, questi civili, il 7 ottobre: invadere anche loro, rapinare anche loro, violentare, uccidere, picchiare i cadaveri delle vittime, esaltare la “vittoria delle resistenza” in cortei. Non se n’è presentato nessuno quando Israele ha offerto libertà e soldi a chi avesse dato informazioni sui rapiti, che almeno in parte erano detenuti in case private e installazioni dell’Onu. Li abbiamo visti di nuovo far festa e tentare linciaggi al momento del riscatto dei rapiti. Probabilmente questo non è vero di tutti, qualcuno davvero innocente della violenza terrorista ci sarà; ma è chiaro che mentre nella Germania nazista c’era una resistenza, c’erano emigrati, c’erano personalità che aiutarono i deportati o scelsero di testimoniare fino alla morte, questa opposizione a Gaza non esiste. La seconda complicità da denunciare in questo momento è quella del sistema internazionale, dell’Onu, dell’UNRWA, delle corti internazionali, della Croce Rossa, che hanno fatto molto per rendere possibile questo scempio. La terza è quella dei politici, dei giornalisti, degli intellettuali che hanno in sostanza giustificato Hamas amplificando la sua propaganda, ripetendo con compunzione le sue menzogne.

    Non basta liberare i rapiti
    Di tutto questo bisogna ricordarsi pensando ai rapiti, alla parte di loro che è stata liberata e a quelli che ancora si trovano nella sofferenza della schiavitù. Il quadro che ha reso possibile l’assalto multifronte a Israele oggi è profondamente trasformato. Israele deve cercare di liberare i propri rapiti. Ma deve anche fare tutto quel che è possibile per non subire altri rapimenti, altre aggressioni, altri lutti, altre aggressioni. Per questo è necessario continuare la guerra fino alla distruzione totale dei movimenti terroristici e di chi li comanda (il regime iraniano).

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