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    Mercoledì scorso si è svolto il primo dei quattro appuntamenti organizzati dalla “Vittorio Dan Segre Foundation” per analizzare il concetto di convivenza tra identità diverse nella dimensione digitale. Shalom ha intervistato il direttore della Fondazione Gabriele Segre saperne di più su progetti ed obiettivi, e ricordare la figura di Vittorio Dan Segre.

     

    La fondazione che dirige ha come obiettivo la promozione della cultura della convivenza tra identità diverse. Perché è importante promuovere questa cultura?

     

    La fondazione nasce quando nel 2014, dopo la morte di mio nonno Vittorio Dan Segre, abbiamo creato una serie di tavoli di discussione in diverse parti del mondo: Singapore, Gerusalemme, Parigi, Roma e New York. Attorno a questi tavoli abbiamo raccolto una serie di personalità che avevano a che fare con la figura di Vittorio Dan Segre, quindi diplomatici, politici, scrittori e giornalisti, come ad esempio Amos Oz, Maurizio Molinari e Stefania Giannini per citarne alcuni. L’obiettivo primario era quello di capire se ci fosse spazio per una continuazione dell’eredità intellettuale che Vittorio Dan Segre ci aveva lasciato. Quello che è venuto fuori, con grande sorpresa di tutti, non è stato tanto continuare il lavoro di mio nonno, ma, ispirati da quel lavoro, affrontare il tema delle identità e come queste, da un punto di vista di narrativa culturale ma anche relazionale, venivano affrontate e capite: uno dei grandi problemi e delle sfide del XXI secolo.

    Insomma, parlare di identità in maniera diversa. Ecco che allora si è visto come queste storicamente e tradizionalmente si relazionano non solo da un punto di vista fattuale ma anche di narrativa culturale in due maniere: la prima attraverso il conflitto, due identità che si riconoscono una alternativa all’altra e attraverso il conflitto generano il livello di riconoscibilità e di esistenza nel vincere sull’altra. Dall’altro lato abbiamo il tentativo di superare il conflitto attraverso il loro superamento, ovvero quel processo culturale di creare delle macro identità che comprendono le altre. Pensiamo all’Unione Europea che è nata in questa maniera, dal conflitto delle diverse identità nazionali se ne è creata una superiore in comune a tutte. Ci si è chiesti a quel tavolo, ed è anche la mission della Fondazione, se è possibile creare o ragionare ad una narrativa diversa, una terza via dove è possibile creare uno spazio di convivenza delle relazioni, un riconoscimento culturale del valore della convivenza senza però rinunciare alle identità. La cultura della convivenza per noi è quello spazio di celebrazione delle specificità e dell’unicità di ogni identità e della loro dignità di esistenza. La celebrazione che però non è funzionale, come ad esempio lo è per i nazionalismi, all’asserzione di superiorità sugli altri, ma è funzionale ad una maggior consapevolezza di sé stessi. Dignità dell’identità, reciprocità ed umanesimo formano quella che noi chiamiamo la cultura della convivenza.

     

    Un traguardo arduo che richiederà del tempo per la realizzazione. Quanto può influire il periodo storico che viviamo?

     

    Le identità, da quando esistono le relazioni sociali, hanno sempre avuto la sfida della convivenza. Noi le definiamo molteplici e cangianti. Dipende da cosa noi guardiamo, dobbiamo ricordarci che non hanno una distinzione univoca, esistono tanti tipi di identità ed ognuno di noi le performa a diversi livelli. Noi siamo tante cose diverse. Il punto non è promuovere la convivenza, noi promuoviamo la cultura tra identità diverse. Come tutte le culture e gli impianti valoriali, questo va costruito nel tempo, capito e comunicato attraverso l’educazione. Il nostro ruolo è quello di aiutare le persone, con l’educazione, a fare quello che noi chiamiamo “indossare le lenti della convivenza”, ovvero dare gli strumenti culturali di educazione valoriali affinché ognuno possa riconoscere i valori della convivenza e la complessità delle relazioni tra le identità. Così che in ogni situazione della propria vita, a seconda dei contesti in cui ci si confronta, si sia in grado di conoscere la sfida delle relazioni delle identità e si possa intervenire in maniera specifica per ogni contesto al fine della convivenza.

     

    La pandemia ha cambiato le persone e di conseguenza la convivenza?

     

    La pandemia ha modificato alcune delle sfide, scardinando alcuni impianti di equilibrio sociale e infilandosi nei nodi di relazione tra i vari attori sociali. Ad esempio la questione tra il mondo del lavoro, o della scuola o dei trasporti. Quando tu non puoi più prendere i mezzi a causa della pandemia metti in crisi tutto il sistema di relazioni sul mondo del lavoro. Se tu non puoi più andare a scuola questo inciderà sulla vita famigliare, sulla vita lavorativa delle persone, quindi sull’impianto sociale. Facendo emergere delle sfide identitarie: l’essere professionisti, ma anche genitori che si devono prendere cura dei figli, ma anche figli che si devono prendere cure dei genitori, senza riuscire a trovare un equilibrio tra questo tipo di ruoli.

     

    Qualche giorno fa c’è stato il primo di quattro appuntamenti promossi dalla Vittorio Dan Segre Foundation per analizzare il concetto di convivenza tra identità nella dimensione digitale. Quale ruolo gioca la tecnologia?

     

    L’interazione deve avvenire anche se in forme diverse. La pandemia ha limitato alcune forme di comunicazione, ma ne ha create altre. Per esempio tutte le comunità online sono nuovi tipi di identità, nuove forme di convivenza e relazioni umane che rappresentano nuove sfide alla convivenza. Il tema delle identità digitali è uno dei punti di osservazione che noi abbiamo proprio per il suo dinamismo, creandone delle nuove, andando a modificare altri generi esistenti, andando a mettere in discussione dei punti di comprensione che davamo per scontati, andando a creare nuove sfide tra le relazioni tra persone. Pensiamo alla responsabilità degli individui online, pensiamo al potere dei social media, alla maniera in cui la privacy viene cambiata, l’utilizzo dei dati, alla cyber sicurezza, ci sono tante tematiche che non hanno a che fare solo con la questione tecnica di comprensione e di gestione delle nuove tecnologie, ma hanno a che fare con un livello più profondo culturale e quasi filosofico di comprensione della relazione umana e dunque identitaria che si crea in uno spazio totalmente inedito. La fondazione Vittorio Dan Segre non è esperta del mondo digitale, noi non osserviamo la natura del mondo digitale e tecnologico puro ma ci poniamo la questione della convivenza delle identità all’interno di quello spazio. Infatti nel nostro programma ogni appuntamento ha una tematica profondamente umanistica, dalla cittadinanza digitale, alla questione dei diritti e dei doveri degli individui, delle organizzazioni e degli stati, al tema della libertà e del potere all’interno del mondo digitale. Temi profondamente umanistici che assumono significati in termini di identità e convivenza all’interno del mondo digitale.

     

    Come pensa in un futuro lo stare insieme e fare comunità?

     

    Se noi cerchiamo di trovare un modello unico che comprenda la maniera giusta per fare convivenza, per fare comunità, falliamo in partenza perché, come detto prima, ogni identità ha le sue specificità e ogni relazione identitaria presenta le sue sfide. Non esiste una ricetta per fare comunità, esiste un approccio culturale e valoriale che fornisce gli strumenti affinché le varie individualità all’interno delle comunità mettano in piedi uno sforzo consapevole di comprensione della sfida della convivenza e dunque della creazione di risposte più adatte e più specifiche per le sfide che si trovano davanti.

     

    Cercando notizie su di lei su un suo blog scriveva; “Il mio attuale lavoro alle Nazioni Unite mi dà l’occasione di studiare la leadership politica”. Trova che sia cambiata la politica e che ci siano delle leadership forti che possano traghettare i paesi in quella che è la mission della Fondazione?

     

    È difficile dire se ci sono delle leadership abbastanza forti, perché vorrebbe dire vedere o bianco o nero e la leadership non è questo, non ha mai a che vedere con un carattere specifico. Non si può dire se un capo di stato, di governo, di un’azienda, chi gestisce l’autorità, chi si trova in posizione di responsabilità è un leader o meno, questa è una concezione vecchia e sorpassata dagli studi di leadership. Oggi non se ne parla più come sostantivo o aggettivo ma come verbo, si parla di esercizio della leadership. Non bisogna più chiedersi se quella persona è un leader ma domandarsi se esercita efficacemente leadership o meno. L’azione è portatrice del carattere di leader.

     

    La Fondazione prende il nome da suo nonno. Chi è stato Vittorio Dan Segre e cosa ha rappresentato la sua figura per la collettività?

     

    Vittorio Dan Segre era tante cose diverse. Aveva egli stesso diverse identità, italiano emigrato in Israele, ma anche di israeliano che aveva un ruolo di responsabilità per l’Italia. Era un diplomatico che ha servito il suo stato ma anche un intellettuale critico. Era un giornalista affermato con una grande capacità di analisi della complessità e professore universitario che di quelle complessità ne cercava le ragioni più profonde. Ricordo i pomeriggi a discutere di questi temi, dove lui era mentore, maestro, esperto e persona da cui imparare ed io un giovane appassionato e allo stesso tempo volenteroso di capire, imparare e criticare magari in maniera un po’ naif ma certamente con la voglia di crescere attraverso quegli insegnamenti. Visto che le identità cambiano, come abbiamo detto prima, c’erano delle volte che ero io ad imparare da lui e volte che era lui ad imparare da me. Era mio nonno e uno dei miei migliori amici.

    Photo by Jacek Dylag on Unsplash

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