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    di Ariel Arbib

    Tutti ricorderanno di certo il famoso film “Scusi dov’è il West?” interpreto dallo spassosissimo Gene Wilder nei panni di un Rabbino e da un giovanissimo Harrison Ford, nel ruolo del pistolero buono. Una sceneggiatura esilarante che narra le avventure  paradossali e a tratti eroiche di un Rabbino sbarcato a New York, arrivato fresco fresco dalla Polonia e diretto in California, con la sacra missione di sostituire un suo collega Rabbino nella Comunità ebraica di San Francisco rimastane appunto priva. Una storia banale direte, che ha di strano? Niente, certo! Se non fosse per il fatto che il tutto si svolge nel 1850 ed il nostro Rabbino, durante tutto il suo viaggio “coast to coast” e poi in pieno Far West, dovrà vedersela con sbandati tagliagole, pronti ad assalire e derubare malcapitati viaggiatori e poi ancora, l’incontro con una feroce banda di Indiani sul piede di guerra, con le facce dipinte e i variopinti diademi di piume sulla testa, ai quali, solo il suo coraggio e la sua testardaggine sapranno tener testa, permettendogli di mettere in salvo il rotolo della Torà che aveva portato con se. Le gags, si susseguono una dopo l’altra durante tutto il film, stappando risate a non finire e, come non può non essere in un film di Gene Wilder, la storia termina ovviamente con un lieto fine.

    Quella che sto per raccontare, è verosimilmente una storia simile, se non altro perché si svolge più o meno negli stessi anni e nei medesimi luoghi, precisamente nel New Mexico; a differenza della prima però, questa è una storia vera.

    Il prologo è simile a migliaia di altre storie come questa, fatta di milioni profughi, di carovane, di Ebrei erranti, di famiglie smembrate che lasciano l’Europa dell’Est con le loro misere masserizie, con l’unico scopo di inseguire il sogno di una nuova vita migliore, ma soprattutto di metterla in salvo. Sfuggono infatti a quei sanguinosi Pogrom che proprio in quegli anni e poi in quelli a venire, causarono disastri agli Ebrei in quelle terre del Nordest europeo, tra i primi dell’800 e l’inizio del ‘900.

    Con viaggi difficili ed estenuanti, molto spesso pericolosi e pieni di insidie, queste moltitudini di persone partite da ogni parte d’Europa, solcano l’Oceano Atlantico,

    per arrivare a quella che all’epoca veniva ritenuta la Terra Promessa, la Terra delle opportunità: l’America!

    L’ interprete principale della nostra storia si chiama Salomon Bibo. Nato in Prussia nel 1853, con i milioni di europei  prima di lui , approdò in America all’età di sedici anni, assieme ai suoi due fratelli. Lavorano assieme a New York, prima per un Ebreo anch’esso prussiano di nome Spielberg, (parente ? Chi sa!) dopo qualche anno però, si  trasferiscono  tutti e tre nel Nuovo Messico in cerca di fortuna e di maggiori opportunità. Avviano infatti, poco dopo il loro arrivo, una proficua attività di compravendita e scambio di merci varie, con gli indiani Navajos. Acquistano da loro prodotti della terra e del loro artigianato, che poi rivendono nei Forti dell’Esercito degli Stati Uniti, presenti in quel territorio.

    Stabiliscono subito con gli Indiani ottimi rapporti, imparano la loro lingua, divenendo presto, i loro intermediari col Governo americano. In seguito nel 1882, all’età di ventinove anni, Salomon, come si suol dire, apre bottega!! Stabilisce cioè un punto di commercio tra gli Indiani Acoma, la più antica (XIII Secolo) e prestigiosa tribù del Nuovo Messico. Sembra di vederlo, dietro al suo bancone di legno, tra lumi a petrolio, cordami, chiodi, padelle e utensili di ogni genere, assecondare i clienti esattamente come, la cinematografia classica dei film western, ci ha abituati. In poco tempo Salomon, diventa un esperto della situazione indiana di quei luoghi e dei problemi legali legati a quella tribù, guadagnandosi la piena fiducia dei Capi anziani, che oramai lo chiamano con riverenza “Don Solomono”.

    Passando definitivamente dalla loro parte, negozia per loro conto, tutte le varie situazioni territoriali e amministrative col Governo di Washington, in quanto gli Indiani intuiscono, che per arginare le bramosie territoriali dei Coloni, in continua espansione, un rappresentante bianco è quel che ci vuole.  Per tanto, con un contratto di affitto, stipulato con loro, i novantamila acri di terra di proprietà degli Acoma, passano direttamente sotto la sua giurisdizione, assieme al sottosuolo ricchissimo di carbone, prezioso per l’epoca come per noi oggi lo è il petrolio.

    Negoziare gli piace e gli riesce facile, come facile riuscì anche ad Henry Kissinger in altre situazioni,  una ottantina di anni dopo. Si vede che i Geni della  negoziazione, non per favorire se stessi, ma per mettere d’accordo gli altri, hanno probabilmente trovato uno spazio considerevole nel  DNA degli Ebrei…

    E così infatti gli Indiani, per non avere sorprese, ne subire soprusi dal Governo, su consiglio di Bibo, decidono di affittargli l’intero loro territorio, per dodicimila dollari l’anno, valutando in dieci dollari la tonnellata il prezzo del carbone estratto, oltre al diritto di pascolo su quell’immenso appezzamento di terra.

    Divenuto di fatto il Capo indiano degli Acona, questo non gli impedì di continuare a professare la propria  religione avita, ma anzi la “hutzpa”(tenacia e faccia tosta) da ebreo ashkenazita, uscì prepotentemente fuori, quando l’agente per gli Affari Indiani, tale Pedro Sanchez, provò a far invalidare, per ovvi motivi, il contratto di affitto stipulato precedentemente col “rico israelito”.

    Bibo, con mossa astuta e repentina, arrivò invece a farsi riconoscere dal Governo degli Stati Uniti, il titolo di governatore del popolo Acoma, riuscendo in questo modo a mandare all’aria il piano di Sanchez e mantenere valido il contratto di affitto.  

    Oramai ricco e potente, Solomon sposa all’età di quarantasei anni, la bella nipote di un dignitario indiano, la Principessa Juana Valle, convertitasi nel frattempo all’Ebraismo, divenendo così di fatto il primo e ( unico??) Capo indiano ebreo della Storia.

    Dieci anni più tardi, lascia per sempre la sua concessione e la riserva indiana, trasferendosi a San Francisco, con la moglie e i figli, permettendo così a questi ultimi di ricevere una adeguata educazione ebraica.

    Visse là ancora a lungo e, nel 1934, all’età di ottantuno anni, rese l’anima a Dio.   Venne sepolto nel Cimitero ebraico di Colma in California dove, sette anni più tardi, lo raggiunse la sua  bella Principessa indiana.

    Due storie a lieto fine, quella del film citato sopra e questa, nelle quali risaltano la tenacia, l’intelligenza e la determinazione e perché no, anche quel pizzico di scaltrezza tutta ebraica dei due protagonisti, qualità tipiche che emergono negli uomini, soprattutto quando sono vittime di ingiustizie, soprusi e umiliazioni, motivi questi che, non solo non costringono ad abbandonare i propri ideali e le proprie radici, ma anzi ne rafforzano i legami marcandone spesso i contorni.

    Ariel Arbib

     

    Con riferimento ad un capitolo del libro: “Innamorato dell’Ebraismo” di Jaques Attalì

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