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    Ricordo che quel fatidico 11 settembre di ormai diciannove anni fa era il mio primo giorno di lavoro alle Twins Tower, entravo a far parte della sorveglianza dell’edificio nord. Erano passati due mesi dal mio ultimo licenziamento ed il ritorno in grande stile in una struttura così prestigiosa mi elettrizzava. La notte prima non riuscii a dormire, misuravo la stanza a grandi passi sotto gli occhi commossi di mia moglie che finalmente tornava a vedermi sorridere. Per fortuna era riuscita a mantenere il bilancio economico della casa mentre correvo a perdifiato per le strade di New York alla ricerca anche del più umile dei lavori. Ricordo perfettamente che quella mattina mi alzai con due ore di anticipo rispetto la sveglia ed andai a fare una passeggiata intorno a casa, riscoprendo la bellezza delle piccole cose. Non avevo mai fatto caso al sapore dell’erba avvolta dalla rugiada, né a quello dell’aria di metà settembre che cede il passo all’autunno. Le foglie avevano cominciato a perdere il colore, e tutto quel silenzio, a dire la verità, mi appagava. Era da tempo che quella pace, quegli odori e sfumature non avevano più la loro essenza. D’un tratto, però, il pianto d’un bambino mi riportò nella dimensione reale, era il più naturale dei suoni, persino più naturale del cinguettio degli uccelli che sorvolavano la mia abitazione. Non straziante, ma lungo ed intenso, il bambino chiamava la madre come il più normale dei richiami della natura. Con questa positività percorsi la strada per tornare a casa, quando, varcando la soglia della porta, il quotidiano lanciato dal postino mi rotolo tra le gambe. Lo raccolsi e mi addentrai in cucina, dove mi preparai la più gustosa delle colazioni degli ultimi mesi. Nel mentre sfogliavo il giornale, saltando “cronaca” e “sport”, fino ad arrivare alla sezione di “politica estera”: le solite cose, il quadro in medio-oriente era sempre teso, ma alla fine nessuno avrebbe interferito con la lontana e possente America. Non ebbi tempo di leggere tutto il notiziario, non quel giorno, tanto emozionante, che non avrei mai dimenticato. Così corsi in camera a prepararmi, indossai il mio abito migliore e poi feci il giro della casa per salutare tutta la ciurma. Un bacio a mia moglie, una pacca a mio figlio ed un lungo abbraccio alla mia bambina.

    “Devi proprio andare? Non puoi restare un altro giorno a casa con noi?” mi aveva chiesto la piccola.

    “No tesoro, papà deve proprio andare a lavoro. Però, stasera pizza e cinema?”.

    “Andata!”

    Salutai tutti più volte, poi uscii per salire in macchina. New York era la stessa di sempre, il caos della mattina era davvero insopportabile: un incidente sulla strada principale e due strade chiuse, sembrava che dovessi arrivare per forza in ritardo! Ah, e per non parlare di quel matto che mi ha sbarrato la strada intimandomi di non lasciarmi andare a lavoro senza prima avergli dato degli spiccioli. Dopo quaranta minuti per fare solo dieci chilometri, riuscii ad arrivare in orario a lavoro. Dovevo gestire alcuni compiti di vigilanza tra il 40° e 50° piano. Ci avrei messo almeno qualche minuto per raggiungere la postazione, così nell’attesa dell’ascensore chiamai mia moglie per aggiornarla.

    “…Sono davvero emozionato, con questo lavoro molte cose andranno meglio!”.

    “Sono davvero contenta tesoro, è una grande occasione, e poi i ragazzi…”

    Nel frattempo l’ascensore era arrivata, ed avevo cominciato a salire i piani a gran velocità. Ore 08:46, in perfetto orario.

    “Tesoro devo lasciarti, sono quasi arrivato, ti amo”.

    “Anche io, ti aspettiamo a cas…”

    Buio.

    Di cosa successe dopo, io non lo ricordo. Rammento solo le porte dell’ascensore che si aprono, una grande finestra che, invece di riflettere la mia immagine, funge come da lente di ingrandimento mostrando un gigantesco aereo farsi avanti verso di me. Non riuscii a dire nient’altro a mia moglie, le mie ultime parole furono “ti amo”.

     

    Esiste una sola data al mondo in cui tutti ricordano che cosa stessero facendo, ed è la mattina dell’11 settembre 2001. Io avevo poco più di un anno, ero un bambino, un innocente bambino. E chi dice che lo stesso bambino di questa storia non avesse la mia stessa età? Chi dice che il signore di questa vicenda non sia davvero esistito? Quante persone avrebbero dovuto saltare quel giorno a lavoro, e magari non l’hanno fatto? Quante, invece, il contrario? Quanti hanno fatto tardi a lavoro, o non hanno sentito la sveglia, o hanno avuto un contrattempo che non gli ha permesso di recarsi alle torri? Tante domande, nessuna risposta. Quella data ha cambiato il nostro modo di vivere, ha fatto comprendere per la prima volta, all’intero globo, cosa volesse dire la parola “terrorismo”. Terrore, è quello che si prova uscendo di casa senza avere la certezza di tornare, quello che si prova quando si è coscienti di esser scampati, per un motivo magari futile, ad uno dei più famosi attacchi alla civiltà odierna. Molti non avranno mai un nome, perché si sono dispersi come la fuliggine delle torri. C’è chi ancora aspetta un amico o un parente sulla porta di casa, chi versa lacrime nella propria metà del letto ormai vuoto da un lato.

    Oggi quei morti piangono ancora, a Ground Zero, perché non hanno avuto il tempo di farlo in vita. Oggi è l’11 settembre 2020, ed il mondo piange ancora la sua perdita. In memoria di tutte le vittime.

     

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