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    La camminata del 16 ottobre e la voce che squarcia il silenzio

    La camminata silenziosa in ricordo della deportazione degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943 non è una manifestazione molto nota nella città, ma lo è per la Comunità Ebraica, e per questo c’è una ragione: ormai sono quasi vent’anni che gli ebrei di Roma si raccolgono in un momento privato, e camminano per le vie del quartiere ebraico, quelle del rastrellamento del 16 ottobre, chiamando i nomi degli ebrei deportati nella razzia. Oggi hanno partecipato centinaia di ebrei della comunità, assieme al Rabbino Capo Riccardo Di Segni e alla Presidente Ruth Dureghello.

     

    Oltre alle corone, alle cerimonie ufficiali, ai discorsi, e alle varie manifestazioni in cui le istituzioni e i cittadini si stringono attorno alla Comunità per ricordare, si è sempre sentita l’esigenza di raccogliersi per riflettere in silenzio. Un silenzio che vuol dire tante cose nella vicenda del 16 ottobre, perché oltre ai silenzi di buona parte degli italiani e del Vaticano durante la razzia, c’è quello che ancora fa male, e che più appartiene alla camminata: è il silenzio che seguì il 16 ottobre, è il silenzio di coloro che non tornarono più. Dei 1023 deportati il 16 ottobre, tornarono in 16, di cui una sola donna, e nessun bambino.

     

    Quello della camminata è un silenzio che si squarcia solo con le voci di chi pronuncia i nomi degli ebrei deportati a un megafono. Nella lettura dei nomi partecipano tutti, dai più grandi ai più piccoli, in un rito che vede passare la memoria dalla voce di nonni, genitori, figli e nipoti. La camminata silenziosa, fuori da ogni retorica delle celebrazioni del momento, è la memoria a lavoro. È la memoria che ci ricorda, nei nomi che risuonano tra i palazzi di Portico d’Ottavia, di Sant’Angelo in Pescheria, di via della Reginella, quegli ebrei romani, cittadini italiani, che furono presi di sorpresa dai nazifascisti nelle loro case all’alba del “sabato nero”.

     

    «E forse, la cosa che fa più male della camminata, è non poter chiamare il nome di un bambino che non ebbe il tempo, prima di essere ucciso, di avere un nome. – spiega Elvira Di Cave, che organizza la camminata silenziosa assieme a Daniel Di Porto ed Elio Limentani – La camminata è nata dalla voglia di non dimenticare il tragitto che ha fatto ognuno dei nostri familiari strappati letteralmente dalle loro case. Dapprima l’abbiamo pensata in silenzio. Dopo abbiamo cominciato nominando i deportati, poi abbiamo aggiunto anche le vittime delle Fosse Ardeatine. Negli anni hanno partecipato molti, praticamente tutti, i testimoni della Shoah, da Shlomo Venezia, Piero Terracina, Sami Modiano, Giuseppe di Porto, Alberto Mieli, Donato Di Veroli, Lello Di Segni, Mario Limentani, Milena Zarfati, Enrica Zarfati, Joseph Varon, Enzo Camerino, Donato Di Veroli, e Sabatino Finzi, e tanti altri, in prima fila assieme alle terze e anche alle quarte generazioni. Oggi è con noi come sempre Sami Modiano, tra gli ultimi testimoni, tornato da Auschwitz».

     

    «Se dovessi elencare tutti quelli che ho visto ammazzare non finiremo mai. Ma dobbiamo ricordare anche loro. – ha detto Sami Modiano durante la camminata – Io ero uno di loro e dovevo finire come loro. Ma qualcuno mi ha salvato. Ho capito il significato di parole come freddo, fame, sofferenza e umanità. Io sono passato da quell’inferno e ho perso tutti. Quando sono uscito dalla fabbrica della morte, Birkenau, mi sono chiesto “perché sono tornato?”. La risposta è per ricordare e raccontare, qui alla camminata ci sono dei giovani che stanno ascoltando un sopravvissuto, e loro sono il nostro futuro.

     

    Nell’inferno di Auschwitz e degli altri campi di sterminio, i deportati diventarono numeri, e per gli ebrei romani, che ogni anno si raccolgono per la camminata, chiamare quei nomi, oltre ad essere un momento di riflessione, è una rivincita. Come a dire “noi siamo qui e non li dimentichiamo, perché noi siamo loro”. 

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    Foto copertina di Massimo Di Porto

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