
Sukkot ricorda storicamente le capanne in cui vissero gli ebrei per quarant’anni dopo l’uscita dall’Egitto. Una lunga permanenza nel deserto, come riferisce la Torà (Lev. 23): “Nelle capanne risiederete per sette giorni… perché le vostre generazioni sappiano che in capanne ho fatto stare i figli d’Israele, quando li ho tratti dalla terra d’Egitto”.
La festività era celebrata dal popolo ebraico anche in occasione della conclusione del raccolto agricolo autunnale. Sukkot si svolge cinque giorni dopo Yom Kippur, il giorno di espiazione, e dura otto giorni per chi vive fuori Israele. Durante questo periodo è costume vivere in capanne temporanee, o sukkot, ricoperte da fronde di alberi e costruite solitamente nelle terrazze o nei balconi dagli stessi membri della famiglia.
È consuetudine passare del tempo nella sukkà, dove si consumano pasti festivi e si gode della compagnia di amici e parenti. La sukkà, con il suo tetto aperto al cielo, ci ricorda di essere grati per le benedizioni quotidiane e di riflettere sulla transitorietà della vita.
La capanna viene adornata con molti tipi di frutti tipici della terra d’Israele. Non dovrebbero mai mancare all’interno della sukkà quattro specie vegetali: l’etrog (il cedro), il lulav (un ramo di palma), l’hadass (un ramo di mirto) e l’aravah (un ramo di salice).
Nella foto scattata nel 1988 vediamo l’Emerito Rav Elio Toaff Z”L che sta costruendo la capanna a casa di Arrigo Di Porto.
FONTE: Archivio Storico “Giancarlo Spizzichino” della Comunità ebraica di Roma