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    La peste del 1630-1631: quando gli ebrei di Padova sconfissero il “Morbo nero”

    L’epidemia di peste del 1630-1631, è conosciuta come una delle ondate di peste più violente dell’età moderna. E quando entrava nel ghetto di Padova, e colpiva violentemente anche la Comunità Ebraica padovana, era il periodo in cui ci si accingeva a festeggiare Sukkot nell’anno 5391.

     

    Qualsiasi azione preventiva – dal fermo al commercio con i goyim, al distanziamento sociale dentro i tre Bet-Hakeneset, all’assunzione di medici per curare i malati direttamente nelle case, alla pulizia delle vie del ghetto, fino all’approvvigionamento di scorte alimentari ed economiche – non impedì al morbo nero di dimezzare la popolazione del ghetto. A inizio epidemia, nel ghetto di Padova, si contavano ben 721 ebrei: la peste se ne portò via 421, solo 213 si ammalarono per poi guarire miracolosamente, mentre ancora più straordinariamente solo 75 ebrei – tra cui Avraham Catalano stesso – non vennero proprio toccati dalla malattia.

     

    Oggi più che mai si sente parlare di “resilienza”, una parola entrata con gran forza nel nostro vocabolario quotidiano, la capacità di affrontare e di superare non solo un evento traumatico ma anche un periodo particolarmente difficile.

    Ci si chiede quindi –  nonostante l’aggressività dell’epidemia di peste, le scarse cure, la paura a momenti incontrollabile, il dispiacere di veder morire giornalmente parenti e amici in una muta impotenza – quali furono gli atteggiamenti propositivi nel contrastare il morbo nero? Come si concretizzarono? Come gli ebrei del ghetto cercarono di fronteggiare efficacemente questo momento così avverso?

     

    Sono due i tasselli importanti che portarono alla definitiva conclusione dell’epidemia, facendo sì che gli ebrei morti di peste cessarono definitivamente con un mese d’anticipo rispetto all’andamento delle morti in tutta la città.

     

    Il primo è rintracciabile nella costruzione di un lazzaretto apposito, che avrebbe ospitato solo ed unicamente i malati ebrei, il secondo è invece individuabile nella scelta di affittare un locale adibito alla disinfezione dei beni provenienti dalle case nel ghetto degli appestati.

     

    Avraham Catalano, nella sua puntualissima cronaca, non manca di raccontarci ogni singolo aspetto, problematica o sfaccettatura delle vicende del ghetto colpito dalla peste in quel difficile biennio. Il “Libro de la peste che fu in Padova nel año 5391”, ad oggi risulta essere al mondo l’unico manoscritto in italiano dell’invece più conosciuto “Olam Hafuch” – non altro che la versione redatta in lingua ebraica del famoso diario della peste nel ghetto –.

     

    Nel periodo peggiore dell’epidemia, ossia nei mesi estivi del 1631, i Capi del ghetto venivano chiamati dai Provveditori e dai Rettori della città di Padova. Questi ultimi intimavano ai Capi la costruzione di un lazzaretto che avrebbe accolto i malati ebrei, in quanto a loro non era permesso andare al lazzaretto della città che si trovava presso la zona delle Brentelle. In un primo momento sorgevano le perplessità da parte della Comunità Ebraica, non solo le autorità cittadine chiedevano agli ebrei di costruire un lazzaretto fuori dalla città, ma anche di sobbarcarsi completamente dei costi e degli oneri. La cronaca di Catalano ci restituisce quindi un episodio di patteggio, in cui i Rettori e i Provveditori seppur inizialmente fermi nel loro progetto, si fanno convincere a trovare un compromesso: i Capi del ghetto portando l’esempio dei loro vicini veneziani che vedevano i propri malati di peste curati nelle loro case nel ghetto, riuscirono a concordare la costruzione di un proprio lazzaretto non troppo lontano dal ghetto padovano, presso quindi la zona di Porta Savonarola.

     

    Cominciano così nel mese di giugno i lavori della costruzione del lazzaretto, con una spesa di 609 lire, strutturato perfettamente come tutti gli altri lazzaretti «deviso in doi parte, una per li sañi che ussiva dalle case che vi fosse stato fetate, e l’altra per li tochi», scrive Catalano.

     

    La Comunità ebraica provvedeva in maniera completamente autonoma a portare presso il lazzaretto tutto l’occorrente: coperte, materassi, letti. Dall’apertura ufficiale del lazzaretto, il conteggio dei morti di peste si divide in due voci: “in ghetto” e “in lazzaretto”. Inoltre, Catalano testimonia come, il lazzaretto si auto-finanziasse grazie agli ebrei stessi della Comunità Ebraica padovana che settimanalmente offrivano del denaro o dei generi alimentati. Uniti nella difficoltà vediamo anche come ci si organizzava per stipendiare straordinariamente dei medici per curare tutti i malati.

     

    Bisognerà aspettare il momento in cui i contagi di peste si azzerino, per vedere la Comunità Ebraica impegnata in un secondo importante episodio di resilienza: la disinfezione dei beni.

     

    Seppur l’epidemia di peste sia stata più feroce che mai tra la fine del mese di luglio e la fine del mese di agosto del 1631, il ghetto di Padova invece vede dei numeri molto più esigui di perdite umane. Tanto che per la fine del mese di agosto abbiamo notizia di una grande, agognata, preghiera a Dio come ringraziamento per la cessazione dei morti di peste. È così che il Provveditore rese noto alla Comunità Ebraica della necessità di affittare un nuovo locale da adibire alla disinfezione dei beni provenienti dalle case degli appestati. Seppur non richiesto al resto della città, gli ebrei padovani avevano l’obbligo di mandar – a quello come era definito all’ora – “allo sboro” anche i letti, i materassi e la biancheria. È così che i Capi si occupano di dividere i beni che avevano la possibilità di essere mandati alla disinfezione, da quelli che invece sarebbero poi stati bruciati sulle mura della città – come i mobili, tessuti “di penna”, e pellami –. Assunti quindi delle persone di fiducia, dei neeman, stipendiati giornalmente, ecco che la Comunità Ebraica si accingeva a compiere l’ultimo passo che li avrebbe condotti fuori dall’epidemia di peste. Questi nuovi assunti infatti passavano di casa in casa, individuando gli oggetti da disinfettare o bruciare, li caricavano sulle apposite carrette, per poi infine pulire bene la casa.

     

    Oggi, presso l’archivio storico della Comunità Ebraica di Padova, è stato ritrovato il famoso librettino – redatto nel settembre 1631, come testimoniato dalla cronaca di Avraham Catalano – che registra tutti i beni di ogni famiglia del ghetto mandati alla disinfezione, con la successiva restituzione a distanza di qualche mese.

     

    È così che gli ebrei del ghetto di Padova, uniti in un momento tanto difficile e triste, riuscirono ad uscire dalla violenta epidemia di peste bubbonica del 1630-1631, in una fitta rete di fiducia, con grande cooperazione e una forte coesione interna.

     

    Rebecca Locci, ha frequentato l’Università degli Studi di Padova. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze Storiche nell’anno accademico 2020/2021, con voto 110 e lode, portando una tesi in Storia della Repubblica di Venezia dal titolo “La gestione della peste nel 1631 nel ghetto di Padova attraverso la cronaca di Avraham Catalano”.

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