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    “Discutere in nome del Cielo” – Il dialogo nell’ebraismo e oltre

    La giornata della cultura ebraica, rinviata quest’anno da settembre al 10 ottobre, è dedicata al tema del Dialogo. Domani, alle ore 16.45, presso la Biblioteca del Senato in Piazza della Minerva, si svolge uno dei primi eventi legati a questo tema, la presentazione del libro “Discutere in nome del cielo”, che abbiamo scritto per l’occasione, pubblicato dall’editore Guerini. Alla presentazione, promossa dal presidente della commissione cultura del Senato, sen. Nencini, intervengono rav Riccardo Di Segni, la prof. Lucetta Scaraffia, l’on. Vannino Chiti, oltre agli autori. Modera Cristiano Bendin, de “Il Resto del Carlino”. La presentazione si può seguire in diretta streaming al link https://webtv.senato.it, sul canale YouTube del Senato Italiano https://www.youtube.com/user/SenatoItaliano e sulla pagina Facebook delle Edizioni Guerini https://www.facebook.com/edizioniguerini .

     

    Intitolare una giornata della cultura ebraica al Dialogo implica una doppia sfida: da un lato si tratta di capire qual è la rilevanza del dialogo nella tradizione ebraica e che cosa essa abbia di specifico rispetto a questa pratica, che in una forma o nell’altra è presente in tutte le culture, perché gli esseri umani si parlano, discutono, si scambiano idee dovunque vivono. Dialogare, cioè parlare, è la base di ogni società umana.

     

    Dall’altro lato, l’ebraismo ha vissuto per oltre venti secoli nella diaspora, in mezzo ad altri popoli che praticavano altre religioni, in particolare cristiano o musulmani. Spesso questa convivenza è stata tragica per gli ebrei, schiacciati da maggioranze intolleranti; ma vi sono stati pure degli accomodamenti e fasi di coesistenza più serene. La “convivenza” con gli ebrei è stata produttiva economicamente e culturalmente per i popoli ospiti; al contempo, nonostante ubiqui patimenti, il popolo ebraico ha conservato la propria vita e identità. In alcuni momenti il confronto fra l’ebraismo e le altre due religioni monoteiste da esso derivate è stato teorizzato in scritti più o meno polemici, praticato sotto forma di “dispute”, specialmente in ambienti cristiani. Solo abbastanza recentemente, a partire dal Concilio Vaticano II in contesti cattolici – o, più generalmente, cristiani-, si è iniziato a parlare di “dialogo interreligioso” nel senso che comunemente si intende oggi in Occidente.

     

    Il libro parte dal primo problema. Dialogo è una parola greca, che originariamente si riferisce al teatro e che, a partire da Socrate, assume un significato molto diverso: una discussione fra filosofi oppure fra scienziati per stabilire la verità. In questo senso greco, che ancora sussiste nei congressi scientifici di oggi, il dialogo non è affatto un abbraccio innocuo fra persone che si riconoscono come simili: è una specie di combattimento rituale, in cui ognuno cerca di mostrare che l’altro ha torto. Nelle Scritture ebraiche non si teorizza il dialogo, ma se ne pratica spesso una forma speciale, assai diversa da quella greca. E’ un dialogo etico, che non di rado ha come interlocutore la divinità e che mira a richiamare gli uomini al fondamento delle loro azioni. Avviene così, in diverse forme, con Adamo, Caino, Abramo, Mosè, Giobbe, con i Profeti. Questo dialogo etico, che talvolta chiede perfino ragione a Dio benedetto delle Sue decisioni (con Abramo e Mosè) è una specificità dell’ebraismo. A partire dall’epoca del Secondo Santuario, c’è un’altra forma di dialogo caratteristica dell’ebraismo: è la makhlòket, la disputa rabbinica, che rende vivaci e inquiete le pagine del Talmùd e che continua fino a oggi nel lavoro di commento dei vari testi, come pure nell’interpretazione e nell’estensione della normativa. Vi sono alcune regole in questa sconfinata discussione che perdura dai tempi di Hillel e Shammai sino alle coppie di studenti delle yeshivot, le accademie rabbiniche, che ancora oggi studiano discutendo fra loro. La prima e fondamentale è che si deve discutere “in nome del Cielo”, cioè con la sincera intenzione di capire meglio la Torah e di non di prevalere; la seconda è il rispetto della tradizione di Israele e del suo destino storico. Tutto ciò fa del popolo ebraico non solo “il popolo del libro”, ma anche la cultura della discussione, della molteplicità delle idee, delle argomentazioni puntuali e razionali.

     

    Importantissimo è anche il dialogo esterno all’ebraismo. Qui c’è un’asimmetria fondamentale rispetto alle altre due religioni monoteiste scaturite dall’ebraismo. Gli ebrei non lavorano per convertire gli altri, perché ritengono che si possa essere persone integre e ottenere “il mondo a venire” -o, come altri dicono, la salvezza-, anche senza essere ebrei, semplicemente rispettando alcune regole etico-religiose fondamentali, che la tradizione ebraica attribuisce alla figura di Noè: non uccidere, non bestemmiare, non mangiare animali vivi, avere leggi e tribunali, non abusare sessualmente degli altri, eccetera. Questa dottrina, nota come “noachismo”, corrisponde a una prospettiva peculiare -e profondamente universalista- dell’ebraismo rabbinico, antico e contemporaneo. Tale dimensione caratteristica, più o meno duttile, nei secoli ha permesso all’ebraismo, nonostante le polemiche e le posizioni minoritarie contrarie -seppur autorevoli-, anche di apprezzare taluni aspetti di cristianesimo e islam e il loro ruolo nella storia, ritenuto “provvidenziale”. Nel volume si rende dettagliatamente conto di come, via via, la tradizione religiosa ebraica abbia “pensato” l’altro da sé cristiano e musulmano, definendo specifiche normative.

     

    Più complicato è invece il caso per chi si considera universale e ritiene di essere il solo a detenere la verità e la salvezza. Il libro esamina, tra convergenze e contrasti, una serie di casi in cui questa difficoltà si è concretizzata, dalle violente diffamazioni di Giustino Martire ai dibattiti interreligiosi scritti da grandi pensatori cattolici come Abelardo e Lullo (assai diversi dall’esempio ebraico contemporaneo del Kuzari di Yehudah Halevì), fino alle dispute medievali a cui furono obbligati grandi intellettuali ebrei, come quella di Barcellona che ebbe per protagonista il Ramban nel 1263. Ma si esamina anche il rapporto, non facile, ma diverso, intercorrente tra ebraismo e islam.

     

    La conclusione è che il dialogo è una cosa molto seria, esigente e difficile, assai diversa da un “volemose bene” o anche dalla semplice tolleranza. Esso interroga ciascuno di noi sulle sue convinzioni e sulla sua identità, lo porta al fondo del suo pensiero e della sua fede. Sempre che sia fatto “in nome del Cielo”.

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