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SPECIALE PESACH 5784

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    Breve storia dell’Hatikvà

    Ogni inno nazionale ha una sua storia complicata, che riguarda il testo, la melodia, l’intervento della politica. Non fa eccezione la Hatikvà, l’inno dello Stato d’Israele. L’inno lo conoscono e lo cantano tutti, la sua storia non è però così nota ed è interessante tracciarne alcune linee essenziali.

     

    1 L’autore delle parole

     

    Il testo fu scritto da Naftali Herz Himber, nato nel 1856 a Złoczów in Galizia, allora sotto l’impero Austro Ungarico, oggi Ucraina, Fin da bambino si distinse per le sue capacità espressive in lingua ebraica. Ebbe una vita di viaggi avventurosa, fu definito “il primo beatnik ebreo”. La sua poesia Tiqwatenu fu scritta nel 1877 a Iaşi, in Romania (dove ci fu un tragico progrom nel 1941 e che ora è luogo di rifugio per profughi ebrei dalla guerra in Ucraina). Dal 1882 al 1889 visse con continui spostamenti in terra d’Israele, mentre i suoi poemi venivano pubblicati (1886) e divennero popolari nei primi insediamenti agricoli del movimento Bilu. Emigrò poi negli Stati Uniti, e morì povero a New York per alcolismo cronico nel 1909. Nel 1953 le sue spoglie furono traslate a Gerusalemme.

     

    2 Il testo originale.

     

    L’inno che si canta oggi è la prima strofa, con ritornello, di una poesia di varie strofe. Il testo originale era:

     

     

    כֹּל עוֹד בַּלֵּבָב פְּנִימָה        Finché nel cuore profondamente

    נֶפֶשׁ יְהוּדִי הוֹמִיָּה,           L’anima ebrea palpita

    וּלְפַאֲתֵי מִזְרָח קָדִימָה,     E alle terre di Oriente, avanti

    עַיִן לְצִיּוֹן צוֹפִיָּה;              L’occhio guarda a Sion

     

    עוֹד לֹא אָבְדָה תִּקְוָתֵנוּ,     Non è ancora perduta la nostra speranza

    הַתִּקְוָה הַנּוֹשָׁנָה              La speranza antica     

     לָשׁוּב לְאֶרֶץ אֲבוֹתֵינו       Di tornare alla terra dei nostri padri  

    לָעִיר בָּהּ דָּוִד חָנָה”          Alla città dove David si accampò,

     

    I primi quattro versi sono tutti con la stessa rima, il ritornello ha le rime ABAB.

    Come nella classica poesia ebraica, le parole sono profondamente influenzate dalla lingua della Bibbia. Ma prima ancora della lingua, a fornire l’idea principale è la profezia del capitolo 37 di Ezechiele, in cui il profeta vede una valle disseminata di ossa, e viene invitato a parlare a loro e queste si ricompongono in scheletri, poi in corpi completi e risorgono. Le ossa rappresentano la casa di Israele che dice avedà tikvatènu, “la nostra speranza è perduta”, mentre il Signore la consola, promettendo l’apertura delle tombe e il ritorno alla terra d’Israele.

     

    Oltre al tema principale i collegamenti stilistici alla Bibbia stanno ovunque, eccone alcuni esempi:

     

    כֹּל עוֹד בַּלֵּבָב פְּנִימָה (כל עוד נפש בי, שמ’ ב א ט)  

     

    נֶפֶשׁ יְהוּדִי הוֹמִיָּה  (עיר הומיה, יש’ כב ב)  

    וּלְפַאֲתֵי מִזְרָח קָדִימָה (פאתי מואב, במד’ כד יז, פאת קדימה, יח’ מח ג)        

    עוֹד לֹא אָבְדָה תִּקְוָתֵנוּ ( אבדה תקותנו, יח’ לח יא)  

     

    לָשׁוּב לְאֶרֶץ אֲבוֹתֵינו (שוב אל ארץ אבותיך, בר’ לא ג)   

    לָעִיר בָּהּ דָּוִד חָנָה (קרית חנה דוד, יש’ כט א).  ,

     

    3 La variante

     

    Tre versi del ritornello sono stati cambiati:

     

    הַתִּקְוָה (בַּת) שְׁנוֹת אַלְפַּיִם,           La speranza di duemila anni

    לִהְיוֹת עַם חָפְשִׁי בְּאַרְצֵנוּ,             Di essere un popolo libero nella nostra terra

    אֶרֶץ צִיּוֹן וִירוּשָׁלַיִם.                      La terra di Sion e di Gerusalemme

     

     

    Per molto tempo c’è stato dubbio se inserire la parola bat, per cui esistono versioni antiche senza, ora è presente ufficialmente.  Si è mantenuta la struttura metrica e la rima ABAB. La differenza di contenuto è evidente: nella versione aggiornata, piuttosto che il ritorno è l’indipendenza che conta. Pare che la variante sia stata approvata già in vita dell’autore, ma fu adottata diffusamente solo negli anni ’40 e poi divenne quella ufficiale dello stato.

     

    4 La melodia

     

    Fu subito ritenuto opportuno trovare una melodia per le parole che così opportunamente esprimevano le spiritualità del primo movimento di insediamento. Ci furono diversi tentativi, come la creazione di una melodia originale, diversa per ogni strofa, o l’adattamento a una canzone patriottica prussiana, ma la soluzione che trovò ampia accoglienza fu quella di Samuel Cohen, un diciottenne emigrato dalla Bessarabia, con qualche esperienza musicale, che ebbe nel 1886 l’idea geniale di usare un canto popolare rumeno noto con vari nomi e testi, soprattutto quello di Carul cu boi (“Carro con i buoi”) che alla metrica della poesia si adattava “come un guanto”. Si pensi come la melodia sottolinei il punto principale, ‘od lo, l’ “ancora no” del ritornello.

     

    https://www.youtube.com/watch?v=HUwKM_ihpLM 

     

     

    Qualcuno storce il naso e fa fatica ad ammettere l’origine contadina popolare della melodia, per cui le ricerche musicali si sono allargate. Il quadro che emerge è complesso. Esiste una melodia italiana rinascimentale, il “Ballo di Mantova”, musicata con testi differenti, di cui il più noto è “Fuggi, fuggi, fuggi da questo cielo”, attribuita a Giuseppino del Biado. Il tempo è molto più rapido di quello della Hatikvà, ma la melodia è la stessa almeno nella parte iniziale.

     

    https://www.youtube.com/watch?v=nblEvvLwvLY

     

     

     

     C’è chi ha supposto che la melodia a sua volta derivi da un canto ebraico, sefardita o italo sefardita, che accompagnava il tiqqùn hatal, la preghiera per la rugiada che si fa nella preghiera di musàf del primo giorno di Pèsach; è una preghiera solenne e basti pensare che nel tempio spagnolo di Roma alcuni brani vengono cantati con la melodia dello Yafùtzu, e quella della Hatikvà ci starebbe bene. Le prove però non sono definitive.

     

    Dal rinascimento italiano il “Fuggi fuggi” si sparse per l’Europa, seguendo due canali: quello popolare che poi troviamo in Romania, e quello colto; Mozart lo citò nell’ottava variazione e pare che da lì l’abbia ripreso il musicista ceco Smetana nella Moldava. Molti pensano che la Moldava sia la madre della Hatikvà, in realtà sono “cugine”.

     

    La melodia sopravvive in aree non ebraiche. In Italia viene usata, con un suo testo, nel repertorio dei canti per le messe funebri.

     

    5 L’accoglienza

     

    L’inno si diffuse nei primi insediamenti e cominciò a essere conosciuto nella Diaspora. Dal primo congresso sionista del 1897 ci fu chi lo cantò, mentre fu bandito un concorso pubblico per la scelta di un inno per il movimento. Non si arrivò a una conclusione. Nel congresso del 1903 quando si discusse il progetto Uganda, gli oppositori usarono l’inno per sottolineare l’anelito a Sion. Dal 1907 i lavori congressuali si conclusero con il canto dell’inno; la sua accettazione ufficiale fu solo nel 1933. Gli insediati in Israele per un lungo periodo gli preferirono il “Techezaqna” sulle parole di Bialik. Nello stato d’Israele fu subito adottato come inno, già al momento della dichiarazione fatta da Ben Gurion, ma una legge formale sarebbe stata promulgata solo molti anni dopo. Lo stesso Ben Gurion emanò nel 1958 una disposizione rigorosa per il mantenimento dell’inno dopo aver assistito a una esecuzione musicale in cui ogni musicista era andato per conto suo. SI scoprì subito dopo che non erano variazioni sul tema, ma che la sala era poco illuminata e i musicisti non riuscivano a leggere gli spartiti

     

    6 Le polemiche

     

    Come succede in tutto il mondo, ogni inno nazionale è sotto costanti critiche di vario tipo. L’Hatikvà è criticata dai charedim per principio e per l’assenza di riferimenti ad Hashèm; dagli ebrei orientali, per il suo carattere “occidentale” (l’ebreo guarda a Oriente, ma dove guardano gli ebrei persiani e irakeni?); dalle femministe per l’aspetto sessista (yehudì e non yehudià); dagli israeliani non ebrei per la nazionalità ebraica, in uno Stato dove esistono altre nazionalità. Queste proteste si accompagnano a proposte alternative, come il salmo Shir hamaalot beshuv, o Yerushalaim shel zahav, Sachki sachki di Tchernichowski.

     

    Le polemiche ci sono sempre state. Utile ricordare cosa successe in Italia, specialmente negli anni ’30 quando la polemica contro i Sionisti fu vivissima. A Firenze erano riusciti a introdurre la melodia nella tefillà, ci cantavano l’haskivenu. Qualche volta ci furono compromessi imbarazzanti. In una cerimonia del 1934 per commemorare la vittoria del 4 novembre e i caduti, al Tempio di Firenze si cominciò con la Marcia Reale, quindi Giovinezza, apertura dell’aròn con Va’ pensiero e alla fine discorso del rabbino e Hatikvà. Il rabbino era Elia Artom, che almeno quello era riuscito a far passare; sarebbe stato lui l’autore dell’hanissìm di Yom haAtzmaut che è diffuso nelle Sinagoghe italiane. In Italia circolano traduzioni in poesia della Hatikvà, da cantare con la sua melodia.

     

    Tra i principali promotori del sionismo in Italia ci fu il rabbino David Prato, che si distingueva anche per una bella voce. Abbiamo di lui una commovente registrazione del 1930, quando era rabbino capo a Alessandria d’Egitto, in cui canta la Hatikvà. Si noti, oltre all’unicità dell’assolo, che si sta usando la versione originaria (lashùv e non lihiòt) che sono cantate tutte le strofe e che la pronuncia è sefardita: yehudì e non yehùdimizràch e non mìzrachleZiòn e non leZìon.

     

    http://www.archivio-torah.it/feste/azmaut/hatikva_prato.mp3

     

     

     

    Il testo di questo articolo è tratto da una recente lezione del Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni in occasione di Yom HaAtzmaut.

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