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SPECIALE PESACH 5784

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    Gli ebrei italiani sulle macerie del ghetto di Varsavia e della rivolta

    Dopo la promulgazione, il 19 luglio del 1942, dell’ordine di Himmler di eliminare entro il 31 dicembre tutta la popolazione ebraica del Governatorato Generale – tranne alcune eccezioni – nei tre campi della morte dell’“Aktion Reinhardt”, la seconda metà di questo tragico anno diviene il periodo caratterizzato dalla più alta capacità complessiva di messa a morte nel corso della seconda guerra mondiale. La politica omicida antiebraica del regime nazista raggiunge il suo picco. Un genocidio di così ampie dimensioni e compiuto in uno spazio temporale così ristretto non aveva mai avuto luogo nel corso della storia. Naturalmente il principale luogo in cui prelevare le vittime e deportarle nei centri di messa a morte – in questo caso Treblinka – è il ghetto di Varsavia, un “parcheggio per la morte” in cui agonizzano oltre 450 mila persone. In soli 52 giorni vengono deportati per essere uccisi oltre 235.000 ebrei; più di 10.000 sono uccisi nelle strade del ghetto; circa 8.000 riescono a fuggire nella parte “ariana” della città. Nel ghetto, che ora è ridotto a una specie di campo di lavoro temporaneo, rimangono 50/60.000 persone, prevalentemente giovani abili al lavoro.

    Solo a partire dal mese di ottobre i vari partiti e movimenti giovanili ebraici, pur con vedute e obiettivi differenti, si dotano di una direzione politica, oltre che militare, istituendo un Comitato Nazionale Ebraico. Questa nuova organizzazione si pone come compito quello di contrastare la politica omicida nazista contattando la resistenza nella parte “ariana” della città e cercando di procurarsi delle armi. L’aiuto che riceve è, tuttavia, particolarmente modesto.

    Nel gennaio del 1943 Himmler, nel corso di una visita a Varsavia, ordina di trasferire gli ebrei “abili” nei campi di lavoro e di deportare tutti gli altri a Treblinka. Il 18 gennaio, però, quando inizia la seconda Aktion, gruppi armati di ebrei attaccano con successo le forze naziste – 200 poliziotti e 800 “Trawniki-Männer” (ex prigionieri di guerra sovietici collaborazionisti). Ai combattenti si uniscono tutti gli altri ebrei, in massa. Nel giro di quattro giorni vengono deportate “solo” 6.000 persone circa.

    Tra gennaio e aprile gli ebrei ancora presenti, divisi in oltre 20 gruppi combattenti, preparano l’insurrezione del ghetto. Il 19 aprile, vigilia di Pesach, avviene l’attacco, non certo inaspettato. Il Brigadeführer (generale) Jürgen Stroop dispone di 2.054 soldati e 36 ufficiali (un reparto delle SS, reparti di polizia e della Wehrmacht, oltre 300 ausiliari), abbondantemente dotati di armamenti, tra cui un cannone e 3 carri armati. Gli ebrei combattenti, senza però alcuna preparazione militare, sono circa 750, scarsamente armati e privi di aiuti dall’esterno. I nazisti utilizzano il fuoco, razzi fumogeni, bombe e gas asfissianti per far uscire la gente dai nascondigli, in particolare dalle fogne. Il 16 maggio Stroop scrive nel suo rapporto: “Das ehemalige jüdische Wohnviertel Warschau bestehtnichtmehr” (L’ex quartiere ebraico di Varsavia non esiste più). Per il generale sono stati catturati 56.065 ebrei, di cui 6.929 deportati a Treblinka e 7.000 “sterminati” sul posto. Altri 5-6.000 sono morti nel fuoco. 

    Il ghetto è completamente raso al suolo; tra le macerie rimangono mattoni, metalli e oggetti vari che possono essere ancora utilizzabili. Per recuperare questo materiale viene istituito un campo di concentramento (KL), al cui comando è posto Wilhelm Goecke. Tale campo occupa un’area dell’ex ghetto tra le vie Gęsia, Zamenhof, Okopowa e Smocza e i primi prigionieri sono 300 tedeschi del Reich, che poi assumono il ruolo di Kapos; tutti gli altri sono ebrei di varie nazionalità provenienti da Auschwitz-Birkenau. Nell’estate del 1944 i prigionieri sonooltre 5.000. È a causa dell’istituzione di questo campo che la storia del ghetto di Varsavia e dell’eroica rivolta dei suoi abitanti si incrocia con quella della deportazione dei primi ebrei dall’Italia, quelli rastrellati il 16 ottobre 1943 a Roma. Il 23 successivo, all’arrivo a Birkenau, vengono immessi in campo solo 47 donne e 149 uomini. Dopo la “quarantena”, nel corso della quale alcuni muoiono o vengono inviati in sottocampi di Auschwitz, il dottor Mengele effettua una selezione in cui decide che circa 75 sono destinati al lavoro nelle miniere del campo di Jawischowitz. Successivamente, i restanti 42 vengono inviati, con Arminio Wachsberger nel ruolo di interprete, nel KL, appunto, di Varsavia.Gli italiani capiscono immediatamente dove si trovano: “Il cosiddetto ‘campo di concentramento’ di Varsavia era il ghetto bombardato” testimonia Lello Di Segni; e Arminio: “Il campo era dentro nel recinto del muro di Varsavia. Hanno costruito delle baracche di legno e noi eravamo dentro in queste baracche. Eravamo circa seimila prigionieri”.

    I nazisti vogliono recuperare materiale utile al proseguimento della guerra il più in fretta possibile: “Loro cercavano di sfruttare tutto ciò che era sfruttabile… Il nostro primo incarico fu di cercare il legname secco tra le case distrutte, per farne cataste… in seguito noi italiani fummo adibiti al recupero del ferro: tondini per cemento armato, rotaie del tram, suppellettili di cucina e altri oggetti, tombini in ghisa” (Arminio). In seguito, devono entrare sotto le macerie degli edifici crollati per recuperare mobili, oggetti vari, ma ancor più cercare gioielli nascosti. Presto si rendono dunque conto della tragedia vissuta dagli ebrei del ghetto e della loro terribile sorte: “Facevamo pulizie dei palazzi, così abbiamo avuto occasione de trovà delle posate, cucchiaini, cortelli, di gente che c’aveva abitato. Erano stati quelli che si sono racchiusi tra loro e hanno fatto resistenza” (Lello). 

    “Sulle strade si trovavano ancora dei cadaveri mummificati di donne con i figli in braccio, che si erano gettate dai tetti delle case incendiate dalle SS durante la rivolta. Per terra, bruciacchiati, trovai dei rotoli in pergamena della Torah, libri di preghiera e taletoth. Il cuore mi si stringeva nel vedere con quale barbarie i tedeschi avevano sterminato i nostri fratelli di fede” (Arminio). Sono costretti infine anche ad entrare nelle fogne e nei cunicoli sotterranei a cercare eventuali oggetti di valore.

    Le condizioni di vita si rivelano però da subito insostenibili, e peggiorano nell’aprile del 1944, quando il KL Warschau diventa un sottocampo di Majdanek (KL Lublin): “C’era un freddo enorme, pochi vestiti, poco mangiare, botte de corsa e nun reagire. Non fermarsi, fare quello che si diceva che bisognava fare. Dall’alba al tramonto. In questo campo io ho avuto il tifo petecchiale. Sono stato ricoverato, m’hanno messo addosso, nudo, una spuma disinfettante. Ho avuto trenta giorni tifo petecchiale” (Lello). Ed anche qui ogni due settimane personale sanitario nazista effettua delle selezioni: quelli giudicati non più “abili” al lavoro sono inviati a Birkenau per essere uccisi nelle camere a gas. Questo avviene purtroppo ad Aldo Muggia (1909) e a Riccardo Guido Luzzatto (1889), inviati a morire ad Auschwitz già nel dicembre del 1943. In quel terribile inverno muoiono di stenti e di malattia anche Carlo Curiel (1895), suo figlio Giorgio (1926), così come Leonello Della Seta (1891) e suo figlio Giancarlo (1927). Una sorte simile tocca anche agli ingegneri Bruno Forti (1895) e Carlo Pontecorvo (1902), che “…ci raccontava di essere stato il primo in Italia ad aver utilizzato il microscopio elettronico”, al professor Raffaello Menasci (1896) e al dottor Ascarelli, che “…parlavano sempre di medicina” e a Lillo Pontecorvo, compagno di lavoro di Arminio.

    Nel mese di luglio del 1944 l’Armata Rossa si avvicina a Varsavia, conseguentemente le autorità naziste il 27 luglio ordinano l’evacuazione del campo. Dei 42 ebrei italiani sono ancora in vita solo tre: Arminio Wachsberger, Lello Di Segni e Isacco Sermoneta. 340 prigionieri non in grado di marciare sono fucilati; oltre 4.000 avviati a piedi verso Kutno e, da lì, in treno fino a Dachau.

    Arminio Wachsberger (1913), l’eroico interprete della razzia del 16 ottobre (salva, tra gli altri, anche il piccolo nipote Vittorio Polacco), perde ad Auschwitz la moglie Regina Polacco e la figlia Clara. Dopo la liberazione sposa Olga Wiener e diventa padre di due bimbe: Clara e Silvia. Muore nel 2002.

    Lello Di Segni (1926) perde ad Auschwitz la mamma, Enrica Zarfati, la nonna e tre fratelli minori, Angelo, Mario e Graziella. Ritornato, sposa Silvia Tagliacozzo, con la quale ha un figlio, Roberto, e un nipote, Daniel. È l’ultimo testimone della razzia del 16 ottobre a mancare, nel 2018.

    Isacco Sermoneta (1912) perde ad Auschwitz la moglie Costanza Della Rocca e tre bambine, Costanza, Emma e Franca. Isacco non è in casa quando i nazisti arrestano la moglie e le sue bambine, ma si consegna per non abbandonarle. Tornato a Roma, non si sposa più. È rimasto nel cuore di tutta la Roma ebraica, anche perché svolge la funzione di parnas del Tempio Spagnolo. Muore nel 1991.

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