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    Il vuoto e il pieno. L’arte e le architetture distrutte dalla Shoah

    La Shoah è prima di tutto il vuoto lasciato dalle vite cancellate, dalle loro storie e dai luoghi che non possono più raccontare. Non è possibile colmare una perdita di tale portata e il ruolo della memoria singola e collettiva – e anche della ricerca storica come strumento d’indagine – è quello semmai di far riaffiorare vicende che rischiano di essere dimenticate. 

    L’arte ha guardato alle architetture e agli spazi in Europa che erano parte della vita ebraica, riscontrando come spesso non siano più esistenti: prima gli anni della guerra e della furia nazista, poi l’incuria e l’abbandono nel periodo comunista nei paesi dell’est ne hanno compromesso l’esistenza. Qualche volta la ricerca artistica e quella storica si sono sovrapposte, restituendo una serie di informazioni poco note. 

     

    Per esempio, il recente lavoro “Sinagoghe invisibili” realizzato dal fotografo Štěpán Bartoš in Repubblica Ceca ha documentato gli spazi urbani lasciati vuoti dalle centinaia di edifici ebraici non più esistenti, un lavoro che, come una sorta di mappatura, mostra come ancora oggi si possa ritrovare nelle diverse città il segno di questa perdita. L’artista ha rilevato come la matrice antisemita del nazismo abbia raso al suolo interi fabbricati, ma anche come successivamente le autorità comuniste, in nome di una nuova estetica, abbiano demolito porzioni di città, cancellando inevitabilmente luoghi ebraici che erano scampati alla Seconda Guerra Mondiale. Per esempio a Pardubice, città dove vive Bartoš, la sinagoga è stata distrutta all’inizio degli anni Sessanta. 

    Dopo aver individuato e fotografato questi luoghi, il fotografo ha tracciato sugli scatti il contorno approssimativo dei fabbricati, restituendo un’idea dell’aspetto originale raccontando così la perdita culturale ed estetica del tessuto urbano.

    (Maria e Kazimierz Piechotka, Wooden Synagogues, 1959)

    Un precedente in questo tipo di ricerca è da ritrovarsi nel libro polacco “Bramy Nieba” (trad. Le porte del paradiso) pubblicato nel 1957 dagli storici dell’architettura Maria Huber e Kazimierz Piechotka. Il volume riprendeva uno studio da loro cominciato all’Università di Varsavia e interrotto nel 1938; la Huber e il marito avevano ricominciato dopo la guerra a catalogare e rappresentare le sinagoghe ebraiche in legno. Questo libro, grazie a foto storiche e piante architettoniche, dava per la prima volta una visione del patrimonio architettonico ebraico polacco andato distrutto, insieme a interi shtetl, durante la guerra e dello stile delle architetture in legno differente dalle costruzioni in pietra e mattoni. 

    La versione americana uscita due anni dopo con il titolo “Wooden Synagogues” ebbe ripercussioni nel mondo dell’arte. Una copia fu regalata dall’architetto Richard Meier all’artista Frank Stella, uno dei padri americani del Minimalismo, che trasformò le suggestioni ricevute dalle immagini in un ciclo di lavori chiamato “Polish Village” (1970-1973).

    Le opere, che hanno ognuna il nome di una località polacca in cui sorgevano le sinagoghe, presentano attraverso sagome colorate in metallo gli incastri geometrici di quelle architetture, evocandone la memoria storica e generando nuovi influssi nella cultura contemporanea.

    (Frank Stella, “Rozdol I”, 1973)

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