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    La rappresentazione di Yom Kippur nell’arte. Maurycy Gottlieb e Antonietta Raphaël

    Kippur, ricorrenza solenne che celebra il giorno dell’espiazione attraverso la preghiera e il pentimento, è probabilmente la più sentita tra le celebrazioni, anche dagli ebrei meno osservanti. Nell’arte ebraica moderna troviamo alcune opere che sono diventate nel corso dei decenni l’espressione iconografica per eccellenza di Kippur, in particolare il dipinto di Maurycy Gottlieb (1856-1879) realizzato nel 1878 e la piccola tela di Antonietta Raphaël (1895-1975), eseguita nel 1931. Due esempi straordinari di quanto il retaggio culturale dei due artisti sia riuscito ad emergere in tutta la loro carica emotiva attraverso un forte spirito identitario che prende forma dall’immagine e dal colore.

    Yom Kippur nella Sinagoga di Antonietta Raphaël – oggi conservato in una collezione privata di Milano – è uno dei rari esempi di arte italiana di primo Novecento a tema esplicitamente ebraico. L’artista infatti, pur essendo di origine lituana (nata in uno shtetl a Kaunas nel 1895), dal 1925 fece dell’Italia la sua patria di adozione. Questo dipinto venne realizzato dalla Raphaël durante un viaggio a Londra, città che l’aveva accolta quando era bambina a seguito della fuga degli ebrei dell’est dai pogrom, e testimonia l’educazione ebraica che le venne impartita dalla famiglia, in particolare dal padre rav Shimon, tanto da fare di lei – per usare le parole del critico Roberto Longhi – “la sorellina di latte di Marc Chagall”. Yom Kippur rivela alcuni aspetti fondamentali del pensiero ebraico immergendo la scena all’interno di un’atmosfera mistica costituita da uomini assorti nella preghiera della Ne’ilà. “t’ho già scritto un’impressione della sinagoga in Yom Kippur sera; credo che sarà una cosa molto bella ma è terribilmente difficile. […] si tratta della prospettiva dell’interno e con le teste, teste piccole e piccolissime ma ciascuna deve avere la sua espressione”. Con queste parole Raphaël descrive l’opera al marito Mario Mafai in una lettera del primo settembre del 1931, e da queste righe si evince tutto il coinvolgimento emozionale con cui venne portato avanti il lavoro.

    (Yom Kippur nella Sinagoga, Antonietta Raphaël, 1931,OLIO SU TELA,cm.48×64)

    Il dipinto ci rimanda ad un altro piccolo gioiello dell’arte italiana del Novecento, altrettanto raro nell’espressione di un momento ebraico intimo e profondo. Si tratta della Sinagoga di Ulvi Liegi (Luigi Moisè Levi, 1858-1939), realizzata dall’artista livornese nel 1935 che rappresenta appunto la Sinagoga vecchia di Livorno. Attraverso rapide pennellate e l’accostamento di colori tanto brillanti quanto dissonanti, Liegi descrisse fedelmente la sala centrale con la tevah sullo sfondo, in un’atmosfera calma di silenziosa preghiera. Si tratta di una scena semplice che ci restituisce la quotidianità della funzione liturgica di shachrit, come viene esplicitato dalla scritta “ore 10, mattino” sul retro della tavola, mettendo in primo piano gli uomini con il talleth, simbolo nonché segno tangibile del popolo ebraico nell’osservanza dei precetti della Torah.

    (Sinagoga di Livorno, Ulvi Liegi,1935)


    Il talleth è protagonista anche nel celebre dipinto dell’artista di origine galiziana Maurycy Gottlieb Ebrei che pregano nella Sinagoga di Yom Kippur, oggi conservato al Tel Aviv Museum of Art. Gottlieb, che fu tra i maggiori protagonisti della pittura ebraica polacca, riuscì a fissare sulla grande tela con estrema maestria tutta la solennità del giorno in cui il popolo ebraico è chiamato a fare teshuvà. 

    (Jews Praying in the Synagogue on Yom Kippur, Maurycy Gottlieb,1878)


    Se confrontiamo le due opere possiamo notare alcune similitudini. Con uno stile diverso, entrambi gli artisti mostrano infatti una carrellata di personaggi in preghiera mescolando realtà e fantasia e proiettando i propri sogni all’interno della tela. Gottlieb rappresenta se stesso in tre momenti diversi della sua vita affiancando la sua immagine di bambino a quella adulta, laddove il suo autoritratto di ventiduenne, ovvero l’età che aveva quando realizzò l’opera, si distingue proprio per il talleth che indossa, a strisce colorate, alludendo probabilmente alla sua unicità come artista. Raphaël, per rendere l’atmosfera mistica del luogo, traccia personaggi che sembrano levitare nel vuoto, come recuperati da un’immagine onirica o d’infanzia, dando luogo alla dicotomia tra sogno e religione che contraddistingue tutta la sua esegesi.

    Per concludere, quello che rende straordinario le opere citate è il segno tangibile che esse conservano della penetrazione di un linguaggio di radice ebraica, mantenendo intatte memoria e cultura della millenaria tradizione rabbinica di cui si fanno espressione visiva.

    (Giorgia Liora Calò, storica e critica d’arte)

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