Skip to main content

Scarica l’ultimo numero

Scarica il Lunario 5784

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati

    Le foto clandestine scattate dai Sonderkommando, che strapparono l’orrore dal buio del silenzio

    “Sono fotografie di inestimabile valore, risultato di un atto di resistenza collettiva”: intervista a Laura Fontana Fourel

     

     

    Le scattò ad Auschwitz nell’estate del ‘44 Alberto Israel Errera, detto “Alex il greco”, uscendo dal crematorio. In circa venti secondi con una fotocamera, Alex, riuscì a fotografare clandestinamente il rogo dei cadaveri, un gruppo di donne costrette dalle SS ad avviarsi verso le camere a gas. Venti secondi, l’apice di un’azione di resistenza collettiva ad Auschwitz. Un’operazione del Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei costretti a lavorare nelle camere a gas, che aveva lo scopo di denunciare l’orrore dei campi di sterminio e di documentare della Shoah l’inimmaginabile. Le fotografie scattate dai Sonderkommando sono “documenti di inestimabile valore, il risultato di un’impresa eccezionale compiuta dalle vittime” spiega a Shalom Laura Fontana Fourel, che cura l’Attività di Educazione alla Memoria del Comune di Rimini ed è responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah di Parigi. La studiosa interviene su questo tema al convegno internazionale, promosso dal Comune di Rimini insieme alla Fondazione Museo della Shoah di Roma e al Mémorial della Shoah di Parigi (con la collaborazione del Museo di Auschwitz e dell’Istituto storico della Resistenza di Rimini), titolato “Testimoni dello sterminio” e che è dedicato alla memoria di Shlomo Venezia, il testimone della Shoah, di cui ricorre il decimo anno dalla scomparsa. Shalom ha intervistato Laura Fontana Fourel per ripercorrere e raccontare l’importanza storica dell’impresa dei Sonderkommando, che con quelle fotografie strapparono l’orrore al buio del silenzio. 

     

    Quale è l’importanza, il valore, di queste immagini?

    Della Shoah, intesa come processo di persecuzione e di distruzione dell’ebraismo europeo sotto il Terzo Reich, sono milioni le fotografie che si sono conservate e anche a distanza di decenni dalla fine della guerra continuano a venire alla luce nuove collezioni d’immagini, spesso private e donate ai musei in forma anonima. Va detto che la maggioranza delle fotografie provengono dai persecutori, cioè dalla categoria dei carnefici intesa in senso ampio: SS, comandanti dei campi di concentramento e centri di sterminio, fotografi delle unità di propaganda (dette PK, Propagandakompanien), soldati e poliziotti tedeschi in servizio. Si tratta di un immenso patrimonio visivo che ha documentato le diverse forme di violenza contro agli ebrei, dagli arresti alle deportazioni, dall’internamento nei ghetti alle esecuzioni di massa.

     

    Non sempre, però, sono foto a uso specifico della propaganda del regime, perché spesso si tratta d’immagini scattate senza preventiva autorizzazione – d’altronde le esecuzioni di massa e i campi furono oggetto di reiterati divieti di fotografare – e che erano intese come foto ricordo, come dei trofei di guerra da conservare nel proprio album personale e da condividere coi famigliari.

     

    Le foto scattate clandestinamente da un piccolo gruppo di prigionieri del Sonderkommando di Auschwitz nell’estate 1944 sono completamente diverse e rappresentano un documento di valore storico e umano eccezionale per almeno due motivi: sono le uniche immagini dell’assassinio sistematico degli ebrei a Birkenau realizzate in presa diretta, nel momento stesso in cui il crimine viene commesso e i criminali sono in azione accanto ai detenuti di queste “squadre speciali” addette alla distruzione dei cadaveri delle vittime. Inoltre, sono state realizzate dalle vittime in condizioni del tutto eccezionali ed estremamente pericolose, nell’urgenza imperiosa di produrre le prove del crimine al quale il Sonderkommando stava assistendo impotente e presagendo la fine imminente per tutti i prigionieri. È il contesto con le sue condizioni estreme, oltre al contenuto delle immagini, ad accrescere il valore di queste fotografie che si iscrivono pienamente nella Resistenza clandestina degli ebrei ad Auschwitz, anche se l’azione fu collegata alla Resistenza polacca esterna al Lager.

     

    In che condizioni furono scattate queste fotografie?

    I prigionieri del Sonderkommando erano costretti a lavorare giorno e notte nei quattro crematori, isolati dagli altri detenuti, immersi quotidianamente nelle operazioni preparatorie e connesse allo sterminio. Contrariamente ad alcuni stereotipi, non erano minimamente coinvolti nelle uccisioni, non erano loro a gestire le gassazioni, né erano loro a spingere e a picchiare le vittime per farle entrare nelle camere a gas. Pur nella loro impotenza e disperazione per quel compito orribile che dovevano svolgere (bruciare i cadaveri, dopo aver tagliato i capelli alle donne, estratto i denti d’oro o le protesi, e spargere le ceneri nella natura circostante), alcuni di loro furono protagonisti di atti di resistenza sia individuale, come nel caso dei Sonderkommando che scrissero delle lettere o dei diari che sotterrarono, che collettiva e di gruppo. Per tutto il 1944, quando la capacità distruttiva di Auschwitz era all’apice, furono in corso i preparativi per la rivolta che scoppierà il 7 ottobre 1944 e l’operazione delle foto dell’estate di quell’anno fu sollecitata dalla Resistenza polacca esterna come prova sui crimini perpetrati ad Auschwitz.

     

    La vicenda è stata ricostruita molte volte, ma alcuni dettagli non sono ancora stati documentati con certezza (ad esempio, chi introdusse la macchina fotografica e la consegnò al crematorio V? Fu un prigioniero polacco che faceva parte della squadra di operai che costruivano e riparavano i tetti oppure un civile polacco addetto allo stesso compito? Oppure furono i prigionieri del Sonderkommando a riuscire a trafugarla, tramite l’aiuto di qualcuno, nei magazzini del Kanada?).

     

    Dalle testimonianze dei superstiti di quel gruppetto di 5 prigionieri, Alter Fajzylberg, i fratelli Szlama e Abraham Dragon e Dawid Szmulewski, sappiamo che il tetto del crematorio V venne danneggiato intenzionalmente per richiedere l’intervento di riparazione. La macchina fotografica arrivò nascosta in un doppio fondo di un secchio, forse con l’intervento di Szmulewski che non era un Sonderkommando ma era uno Schreiber, uno scrivano nel blocco IV del campo maschile, membro attivo della resistenza interna. Il suo compito gli permetteva di accedere alle informazioni e di godere di una relativa libertà di movimento. A scattare le foto fu Alex o Alexos il greco, come verrà ricordato dai superstiti, all’anagrafe Alberto Israel Errera, un ebreo greco che godeva di molta stima dai suoi compagni per la sua esperienza nella Resistenza durante l’occupazione nazista della Grecia.

     

    Poiché la macchina fotografica conteneva una pellicola in buona parte usata e tenuto conto della rapidità con cui Errera dovette agire, mentre i compagni facevano la guardia (Szmulewski sul tetto), furono scattate 4 fotografie che riuscirono a riprendere il rogo dei cadaveri all’aperto, con il Sonderkommando e le SS al lavoro, un gruppo di donne nude avviate di corsa verso la camera a gas e le cime degli alberi del bosco di betulle, adiacente il crematorio V. A dire il vero le fotografie potrebbero essere state sette se si considera il numero di quelle ricevute nel 1985 dal Museo di Auschwitz da una donna polacca, Danuta Bystron-Pytlik, attiva nella Resistenza. Forse il fotografo ha scattato due volte nel panico la stessa scena? Oppure nella stampa alcune delle foto sono state sviluppate due volte per errore? Al termine dell’azione, durata meno di 20 minuti, la macchina venne sotterrata e la pellicola riportata nel campo principale forse da Szmulewski che la consegnò a Helena Daton, una giovane ragazza polacca che lavorava nella mensa delle SS di Auschwitz. Helena nascose il rullino in un tubetto vuoto di dentifricio e tramite due prigionieri politici polacchi venne recapitata alla Resistenza polacca a Cracovia il 4 settembre 1944, col un messaggio accorato di detenuti politici, Jòzef Cyrankiewciz e Stanislaw Klodzinski, che descrivevano le scene riprese e sollecitavano l’invio di altra pellicola fotografica per documentare il crimine. Purtroppo l’eroismo del Sonderkommando non servì ad allertare le forze alleate, né a fermare gli ultimi mesi della Shoah. Il crematorio V continuò a funzionare fino al 26 gennaio 1945 quando le SS lo fecero saltare in aria.

     

    Rispetto alle altre immagini che sono arrivate a noi sulle esecuzioni di massa e sullo sterminio, cosa c’è di diverso in queste foto?

    Le fotografie delle uccisioni di massa che conosciamo non sono tante, sia perché non erano quasi mai autorizzate (ma il divieto venne trasgredito spesso), sia perché mostravano i carnefici in azione e potevano costituire, in caso di disfatta militare, delle prove schiaccianti. 

     

    Tuttavia, anche le foto dello sterminio scattate dai nazisti che non erano espressamente autorizzate, né commissionate dal Ministero della Propaganda, furono realizzate col tacito consenso delle autorità tedesche del posto. Il fotografo scatta senza nascondersi, né provare repulsione o paura di disobbedire gli ordini. Fotografa spinto dalla tentazione irresistibile, anche morbosa, di avere un’immagine dell’ebreo agonizzante, umiliato o in procinto di essere ucciso.

     

    Le foto del Sonderkommando ribaltano la prospettiva perché sono il risultato di un’impresa eccezionale compiuta dalle vittime, i prigionieri che dovevano lavorare nel cuore dell’inferno, ma come gesto di coraggio, di denuncia e di umanità per se stessi, costretti a compiere azioni orrende, e per le persone uccise e completamente distrutte fino a cancellarne ogni traccia di cui vogliono raccogliere almeno un frammento visivo prima che cali il buio. 

     

    Anche i fotografi ebrei rinchiusi nei ghetti, come Henryk Ross e Mendel Grossman a Lodz, che riuscirono con coraggio a scattare molte foto proibite, non comprese nel ruolo che era stato loro affidato dal Consiglio ebraico, non poterono documentare lo sterminio, che avvenne nei centri di sterminio e non nei ghetti, tuttavia documentarono la Shoah come processo inteso nel suo insieme al quale facevo riferimento, costellato da tanti tragici momenti prima dell’uccisione: la privazione dei diritti, la denutrizione, l’annichilimento, il lavoro forzato, la morte per i patimenti subiti, le deportazioni.

     

    Le fotografie scattate da Albert Errera sono molto imperfette, parzialmente riuscite, sono sfocate, quelle degli alberi scattate in controluce, per comprendere ciò che mostrano occorre attivare sia la nostra conoscenza storica che la nostra capacità d’immaginazione, cogliendo la sfida della Shoah come evento inimmaginabile. Ma è soffermandosi e comprendendo come ha realizzato quelle foto, protetto dall’oscurità nella camera a gas (forse ancora piena di cadaveri) e puntando l’obiettivo verso l’esterno, oppure rasentando il perimetro del crematorio, scattando senza poter inquadrare con lo sguardo nella lente, ma premendo l’obiettivo forse da sotto ai vestiti o con la fotocamera all’altezza dell’anca. Le SS erano presenti sulla scena e nella torretta di guardia, oltre ai kapo, il rischio fu enorme, incluso quello che la pellicola fosse troppo rovinata per catturare qualcosa o che l’obiettivo avesse inquadrato, come nelle ultime foto della serie, elementi solo di contorno.

     

    Cosa rappresentano queste fotografie per gli storici? 

    Per gli storici sono documenti d’inestimabile valore che vanno però letti anche confrontandoli con le testimonianze dei sopravvissuti e con altre fonti coeve. Infine, l’importanza storica di queste immagini travalica il suo contenuto, perché interroga la diffusione nel dopoguerra, la comprensione e interpretazione che ne è stata data, nonché sostanzialmente la fragilità della fotografia che offre sempre un punto di vista parziale, un frammento di verità e può essere soggetta a manipolazione, come è avvenuto in questo caso tutte le volte che è stato cancellato il contorno nero. Un dettaglio da solo non spiega un’immagine ma l’insieme dei dettagli ricostruisce un quadro: il fotografo prigioniero non potè scattare né liberamente né prendendo il tempo di inquadrare bene, agì con fermezza ma anche con la paura di essere scoperto e ucciso coi suoi compagni.

    Archival collection of the State Museum Auschwitz-Birkenau in Oświęcim

    [GALLERY]

    CONDIVIDI SU: