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    A che servono le feste

    Siamo abituati per tradizione a interpretare i fatti che avvengono intorno a noi, trarne delle previsioni e degli insegnamenti. Il fatto che quest’anno, proprio alla vigilia di Rosh ha Shanà, si vada a votare per il nuovo parlamento (noi ovviamente dobbiamo farlo prima del tramonto) è carico di significati. Anno nuovo, vita nuova; e noi ripetiamo la frase “che finisca l’anno con le sue cose negative, e si rinnovi l’anno con le sue benedizioni”. L’anno che ci lasciamo dietro è stato l’anno degli strascichi del Covid, della guerra in Ucraina, dell’impazzimento climatico, dell’improvviso aumento dei prezzi. Sarebbe bene e augurabile che tutto questo finisca. E poi avremo un nuovo parlamento e un nuovo governo, chissà quanto stabile e capace di fronteggiare le difficoltà, chissà quanto in simpatia con lo stato d’Israele, chissà quanto distaccato da nostalgie e simpatie pericolose. La mattina di Rosh ha Shanà, tra una suonata e l’altra dello shofàr, staremo a commentare i risultati delle urne che forse ci rassicureranno o forse ci metteranno in agitazione più di quanto dovrebbe fare lo shofàr. Rambàm spiega che il suono dello shofàr serve a svegliare chi dorme. Dorme, si intende, in senso spirituale: è colui che si è distaccato da una certa realtà, che non raccoglie stimoli esterni o lo fa trasformandoli in sogni. Le nostre feste di inizio anno hanno questo sapore inconfondibile: l’occasione per ritrovarsi in famiglia, tra amici, e più ingenerale nella comunità e nelle Sinagoghe. Per molti magari è solo un appuntamento dovuto, un’occasione più che altro sociale da non mancare almeno una-due volte all’anno. Ma se tutto questo ha un senso, e ce l’ha, è per utilizzare l’occasione dell’incontro con la comunità e la tradizione per farci delle domande. Nella nostra esistenza siamo sottoposti in continuazione a sollecitazioni negative, a problemi da risolvere. Alle difficoltà quotidiane si aggiungono le crisi generali che turbano l’equilibrio della società. Tutti questi problemi non sono estranei e staccati dalla vita religiosa. Noi preghiamo ogni giorno insieme per la lucidità mentale, per la salute, per la prosperità economica, per la pace sociale, per un mondo ordinato e giusto. I problemi quotidiani e quelli delle crisi diventano oggetto di preghiera. Nelle nostre preghiere noi parliamo al plurale (“ascolta la nostra voce”, “dà a noi…”) perché scatta sempre un senso di solidarietà collettiva e chi ha di più condivide i problemi con chi ha di meno. Ma ognuno può aggiungere alla preghiera collettiva le sue richieste personali. Quindi quando stiamo in una Sinagoga non siamo fuori dalla realtà, ma vi trasferiamo la nostra umanità e la sublimiamo. Ma è proprio dentro alla Sinagoga, e poi fuori “quando stai a casa tua e quando vai per strada”, che dobbiamo essere coscienti di altri problemi, di altre necessità, di visioni più larghe. Paradossalmente riusciamo a sopravvivere, benché a caro prezzo, a crisi energetiche, economiche, politiche, sanitarie, belliche. Ma c’è qualcosa di più difficile da sostenere, difendere, costruire, ed è il nostro impegno ebraico. Il dovere che ha ognuno di noi di far brillare la sua luce, di portare avanti la tradizione e il suo messaggio sacro; studiarlo nei tanti modi possibili, insegnarlo, trasmetterlo, metterlo in pratica, farsi domande e cercare risposte. Avremo problemi con il caro energia, con strani governi e con qualsiasi altra difficoltà, ma poi? Che ne sarà di noi, della nostra famiglia, della nostra comunità, del nostro futuro se non ci rendiamo conto che oltre a ciò che ci rende difficile la vita esistono degli impegni da mantenere e degli ideali più grandi da seguire? Le feste di inizio anno servono anche a questo. A mostrare la differenza tra relativo e assoluto, tra quotidiano ed eterno, tra materia e spirito. A farci crescere, darci energia e serenità. A mettere le cose nelle giuste dimensioni e proporzioni. Che sia veramente, malgrado tutto, un anno buono e dolce.

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