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    Cinque cose da tenere a mente alla vigilia delle elezioni in Israele

     

    Domani, 1° novembre, gli israeliani torneranno alle urne per la quinta volta consecutiva in meno di tre anni. Il paese resta spaccato in due blocchi, quello pro Netanyahu e quello contro. E nessuno dei due, a quanto hanno rilevato i sondaggi condotti durante tutta la lunga campagna elettorale, può contare sulla certezza di raggiungere la maggioranza di 61 seggi alla Knesset sui 120, necessari per governare il paese. Né può garantire la stabilità a un esecutivo che possa durare il tempo di un mandato completo di quattro anni.

     

    Jonathan Rynhold, ricercatore associato presso il Begin-Sadat Center for Strategic Studies e docente di scienze politiche presso la Bar Ilan University, suggerisce cinque elementi che potrebbero influire sul voto degli israeliani, sui risultati alle urne e sulle manovre per la formazione di una coalizione di governo.

     

    Anche questa volta, segnala per prima cosa Rynhold, “sarà centrale il livello di partecipazione al voto, in particolare tra i cittadini araboisraeliani”. “Dati i pochissimi voti in gioco tra il blocco di sinistra e il blocco religioso di destra – fa notare il professore – l’affluenza alle urne in entrambi i blocchi è molto più decisiva rispetto alla quantità di persone che probabilmente passerà da un blocco all’altro”. E il gruppo che potrebbe esprimere maggiori variazioni è quello degli elettori arabi. Nelle precedenti elezioni, la loro partecipazione al voto è oscillata tra il 65% e il 45%, toccando il valore minimo nell’ultima tornata. Questa volta, però, gli analisti si aspettano un picco di affluenza. Muhammed Khalaily, ricercatore presso l’Israel Democracy Institute, ha riferito che nell’ultimo sondaggio nel settore arabo, “il 70% degli intervistati ha affermato di essere sicuro o di ritenere che voterà”, anche se poi ha cautamente precisato che “per capire come ciò influirà effettivamente sull’affluenza alle urne il giorno delle elezioni, è necessario prendere in considerazione ulteriori ricerche e dati”, per concludere che “le stime attuali indicano che vedremo un tasso di affluenza effettiva molto più basso”, più vicino al 50%. Le percentuali di affluenza al voto possono fare una notevole differenza nel numero di seggi che spetteranno ai partiti. Di conseguenza, suggerisce Rynhold, il secondo punto è la dimensione del blocco schierato contro Netanyahu. Maggiore sarà la partecipazione del settore arabo, più si assottiglia la possibilità per il blocco religioso di destra guidato da Netanyahu di ottenere 61 seggi. Viceversa, i voti arabi dispersi porterebbero a una redistribuzione dei seggi che andrebbe a vantaggio della destra e dei religiosi, e di conseguenza rafforzerebbero Netanyahu. Il terzo spunto offerto dal professore della Bar Ilan riguarda gli elettori orfani dell’ex premier Naftali Bennett, che ha deciso di restare in panchina in queste elezioni. Alcuni potrebbero riversare il gradimento su Ayelet Shaked, che da Bennett si è separata politicamente, rinnegando la coalizione di governo in cui lei stessa ha servito come ministro dell’Interno. Tuttavia il partito di Shaked, Habayit Hayehudi, è dato nei sondaggi sotto la soglia elettorale e una dispersione dei suoi voti potrebbe danneggiare il blocco di destra. “Se consideriamo l’area dei religiosi sionisti e il ventaglio degli ebrei ortodossi osservanti – spiega Rynhold – la maggioranza sembra spingersi nella direzione del partito di Itamar Ben Gvir, che ha saputo colmare la lacuna di un partito religioso e chiaramente di destra, ma che non fosse quello, considerato troppo estremo, degli Haredim di Shas”. Altri potrebbero optare per il Likud di Netanyahu, tappandosi il naso sulle accuse di corruzione dell’ex premier pur di sostenere una destra forte e dai contorni precisi. Una minoranza potrebbe anche scegliere Gantz, che al fianco di Netanyahu ha governato per sei mesi. Il suo partito HaMahane HaMamlakhti è una lista che include uomini di destra come Gideon Saar (ex Likud) e Matan Kahana (ex Yamina). Un’altra parte di questo elettorato potrebbe non sentirsi rappresentato affatto e preferire l’astensione. C’è poi un quarto interessante elemento di novità, cioè l’impatto dell’ondata di nuovi immigrati in Israele da Russia e Ucraina in seguito alla guerra in corso, un bacino di 45 mila persone. “Solitamente, gli immigrati da quei paesi – rileva Rynhold – tendono a favorire la destra israeliana. Ma il loro punto di riferimento naturale sarebbe la destra laica rappresentata da Avigdor Lieberman, egli stesso immigrato dall’ex Unione Sovietica, e schierato con il blocco anti Netanyahu”. Un incremento di elettori per Yisrael Beitenu rafforzerebbe il centro e indebolirebbe “Bibi”. Non esistono ricerche a riguardo ma il professore si è chiesto se le immagini della campagna elettorale precedente, con i poster giganti di Netanyahu al fianco di Putin, possano portare un qualche vantaggio per Lieberman. L’ultimo elemento riguarda le conseguenze dell’impossibilità, da parte del blocco guidato da Netanyahu, di occupare 61 seggi alla Knesset. Rynhold intravede, in questo caso, “buone possibilità che [l’ex primo ministro] sfidi la legittimità del risultato”, sulle orme di quanto provato a fare da Donald Trump. “Non mi aspetto di vedere in Israele l’equivalente di quanto accaduto il 6 gennaio a Capitol Hill a Washington”, precisa il professore, ma una tempesta sul sistema politico è uno scenario che diversi analisti temono possa verificarsi.

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