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    La preghiera ebraica è legale sul Monte del Tempio, decide un giudice di Gerusalemme

    Una sentenza della corte distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che non vi è nessuna legge o regolamento che impedisca a un ebreo di pregare in maniera tranquilla e senza ostentazione sul Monte del Tempio. Sembra una cosa ovvia, un diritto umano elementare: in uno stato democratico come Israele chiunque ha diritto pregare civilmente dappertutto. A maggior ragione per un ebreo sul luogo più sacro della sua religione. E però qualche giornale ha definito questa decisione giudiziaria una “notizia bomba” che potrebbe portare alla caduta del governo.

    Ecco il perché. Alla preghiera ebraica sul Monte del Tempio si oppongono due ostacoli principali. Uno è il fatto che numerose autorità rabbiniche vi si oppongono, perché ritengono che non sia possibile ai fedeli garantirsi il grado di purezza rituale necessario per accedere sul Monte e inoltre che vi possa essere un dubbio sulla collocazione delle aree più sacre del Santuario che vi era edificato, il cui accesso è ritualmente limitato. Ma vi sono altre autorità che invece ritengono che questi spazi siano abbastanza noti per essere evitati e che la preghiera vicino al luogo dove sorgeva il Tempio sia permessa, anzi doverosa. Dunque su questo punto vi è incertezza e ognuno deve regolarsi secondo i suoi riferimenti religiosi.

     

    Il secondo punto è politico. I musulmani ritengono di avere il monopolio di quell’area che chiamano “spianata delle moschee” e cercano con determinazione e spesso con violenza di impedire ogni altra presenza religiosa. Questo monopolio è stato rivendicato ufficialmente dalla Giordania, a una cui fondazione Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni e la liberazione della città vecchia lasciò la gestione amministrativa del  Monte (senza però mai rinunciare alla sua sovranità, che è segnata anche dalla presenza di una stazione di polizia). Questo è un compromesso deciso da Moshè Dayan, nella speranza di trovare un accordo col mondo islamico. La teoria, certamente intollerante, del monopolio musulmano sul Monte è sostenuta anche dalla forza politica araba che è determinante per la maggioranza del governo attuale; è oggetto di incitamento da parte dei predicatori islamici che gestiscono al moschea di Al Aqsa costruita nell’ottavo secolo sulla sezione più meridionale del Monte; ha provocato in passato vere e proprie sommosse da parte dei fedeli, ed è difesa con occhiuta sorveglianza da parte delle guardie della fondazione giordana. Tutti ricordano come l’ondata terroristica del 2000-2002, già programmata da Arafat, fu lanciata dall’Autorità Palestinese, prendendo a pretesto una visita di Ariel Sharon sul Monte del Tempio. Come se in Italia un primo ministro non potesse venire in visita alla Piazza del Ghetto di Roma, perché cattolico. 

     

    Per decenni questa politica discriminatoria è andata avanti con poche eccezioni. Era la polizia israeliana ad arrestare e espellere i pochi coraggiosi che provavano ad sostenere la libertà di religione nell’area del Monte. E poi magari costoro erano oggetto di vendette terroristiche, come il rabbino Yehudah Joshua Glick, molte volte fermato e poi anche vittima di un attentato che quasi lo uccise. E’ dal 2018 che la pratica di salire al Monte del Tempio per le feste o anche tutti i giorni si è molto allargata, coinvolgendo migliaia di persone. La polizia è più tollerante, ma cerca di impedire violenze e spesso ancora ferma i fedeli. Ad aprile ci fu una sentenza che annullò il bando amministrativo dall’area inflitto a tre ragazzi sorpresi a pregare. Ora c’è stata una sentenza più importante. Il rabbino Aryeh Lippo ha sporto un reclamo giudiziario contro l’allontanamento stabilito dalla polizia, chiedendo alla giustizia di stabilire il suo diritto di pregare tranquillamente sul Monte ed è stato accontentato. Nel sistema della common law, in vigore in Israele, una sentenza del genere fa precedente e vale fino a nuovo ordine. Bisognerà ora vedere come reagiranno i difensori del monopolio islamico: alla Knesset, in piazza e nella diplomazia.

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