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    Nella campagna elettorale israeliana forse iniziano a emergere i veri temi politici

    Finalmente le elezioni

    Fra poco meno di un mese, il prossimo 1° novembre, in Israele si vota per la Knesset, il parlamento monocamerale. È la quinta consultazione politica in tre anni a mezzo, perché da tutti i parlamenti eletti in questi anni non si è riusciti a formare un governo stabile. Ci sono certamente molte certamente ragioni per lamentarsi di questa instabilità, che lascia la guida del paese a governi privi di maggioranza e dunque non legittimati a prendere decisioni di lungo periodo; ma è certamente meglio per un paese avere elezioni frequenti e dal risultato non precostituito, come accade a Israele, che non averle affatto, come succede nell’Autorità Palestinese, o averne regolari ma col risultato precostituito, come in Iran o in Russia. La democrazia israeliana non riesce a formare governi, perché l’opinione pubblica è divisa e il meccanismo elettorale è concepito piuttosto per rispecchiare la pluralità del paese che per garantire governabilità, come fa invece il sistema vigente in Italia; ma resta una democrazia vivace, partecipata e liberale.

     

    Una campagna regolare

    E’ degno di nota che la campagna elettorale si sta svolgendo nella massima regolarità, nonostante l’intensificarsi del terrorismo palestinista, che è riuscito per esempio a creare situazioni molto difficili riproducendosi in centri come Jenin. I partiti hanno preso atto rapidamente della crisi della maggioranza e hanno cercato di rinnovare la loro offerta politica, ci sono stati diversi cambiamenti degli schieramenti elettorali, sono state presentate le liste dopo consultazioni interne con molte sorprese, si sono svolti incontri elettorali, dibattiti, anche polemiche molto dure, ma sempre nella massima regolarità. Non è banale poterlo dire per un paese in guerra, con un forte nemico esterno (l’Iran) e molte organizzazioni terroristiche che lo attaccano sul suo stesso territorio.

     

    La frattura politica

    La ragione per cui si sono moltiplicate le elezioni è che esistono due blocchi consolidati con quasi lo stesso peso: da un lato vi è chi vuole un governo di centro-destra guidato da Netanyahu: il Likud, i gruppi religiosi, i nazionalisti, cui questa volta i sondaggi attribuiscono un risultato fra i 59 e i 61 seggi (sui 120 della Knesset). Nelle ultime quattro elezioni passate i risultati erano fra i 54 e i 59. Dall’altro vi è un’alleanza unita solo dal rifiuto di Netanyahu, composto dalla sinistra estrema di Meretz (e anche dei laburisti, sempre più simili a loro, anche se i due partiti si ostinano a non fondersi) e da alcuni partiti personali: a centrosinistra quello di Lapid e quello di Gantz (che comprende diversi ex alti ufficiali). A destra quelli dei transfughi per odio nei confronti di Netanyahu: il partito di Lieberman, nelle ultime elezioni anche quelli di Sa’ar (ora fuso con Gantz) e di Bennett (ora in via di sparizione dopo il fallimento del suo leader come primo ministro e il suo ritiro dalla politica). Dopo le precedenti elezioni si è unito loro anche un partito arabo legato alla fratellanza musulmana, Ra’am, arrivando così a una maggioranza di 61 seggi. Era chiaro fin dall’inizio che una coalizione così eterogenea non poteva reggere e infatti si è dissolta dopo meno di un anno. 

     

    I partiti arabi

    Un altro gruppo arabo, la “lista unita” rimase fuori dal gioco. Ora da questa lista si è staccato il più velenoso partito antisionista, Balad, di cui un leader è da anni in fuga, dopo essere stato condannato per spionaggio. La lista che resta sarà probabilmente più debole, ma potrebbe decidersi a entrare in una maggioranza anti-Netanyahu, come ha fatto Ra’am un anno fa, dandole i voti che le mancano per pareggiare la maggioranza di centrodestra. Ma come si è visto già con l’ultimo governo, questo appoggio di partiti antisionisti costa caro e soprattutto produce tensioni insuperabili con i sionisti della coalizione.

     

    La dichiarazione di Lapid

    Parlando all’assemblea generale dell’Onu il primo ministro provvisorio Yair Lapid ha riproposto la vecchia politica dei due stati o dello scambio di terra in cambio di pace con annesse “sincere” trattative, che è il cavallo di battaglia delle sinistre in Europa e negli Usa e che era stata rifiutata dall’elettorato israeliano e resa obsoleta dai rapporti che Israele è riuscito a stringere con gli stati arabi. Naturalmente si tratta di un’opinione legittima, anche se certamente distruttiva per Israele: perché accettare la costituzione di un altro stato come Gaza in Giudea e Samaria, magari con una parte di Gerusalemme come capitale? Ma l’uscita di Lapid può essere molto positiva, perché potrebbe riorientare il dibattito elettorale dalle persone ai programmi e alle scelte politiche decisive che il nuovo governo dovrà compiere: che fare con un Iran sempre più interventista anche se minato dalla rivolta interna, che ormai è diventato uno stato quasi-atomico? Che fare con il terrorismo palestinese e i movimenti che lo appoggiano, inclusa l’Autorità Palestinese? Come schierarsi nel conflitto fra Russia e occidente? Se le elezioni si svolgeranno su questi temi e gli altri decisivi in materia economica, sui problemi della giustizia ecc., è possibile che ne esca una maggioranza abbastanza compatta da reggere nel tempo e guidare Israele verso una direzione precisa.

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