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SPECIALE PESACH 5784

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    Nessuno resta indietro – vivere per credere

    Mi chiamo Ghila Coen ho 20 anni e sono una lone soldier. Nel 2015 ho preso la decisione di venire a studiare in Israele e aderire al progetto Naale. Per chi non lo sapesse questo progetto permette ai giovani ebrei da tutto il mondo di andare a vivere e studiare in Israele senza i genitori. I miei fratelli già vivevano in Israele da qualche anno, il maggiore era un lone soldier combattente nella marina, l’altro proseguiva gli studi universitari ad Herzelya.

     

    Ho vissuto per tre anni in un college che funzionava come una boarding school, un convitto, nel weekend potevamo andare a casa dei nostri famigliari. Nel caso in cui non ne avessimo avuti, la scuola ci procurava delle “famiglie adottive” che restavano con noi per tutti e tre gli anni. Israele mi pagava l’alloggio, il cibo, gli studi, mi dava i soldi ogni weekend per i trasporti per arrivare a casa ed in fine una volta al mese ci dava anche la paghetta, tutto ciò per tutta la permanenza.

     

    Una volta finito il liceo sono tornata a Roma dalla mia famiglia, essendo molto indecisa sul cosa fare del mio futuro. Ho iniziato a lavorare e nel frattempo tutti i miei amici del college si sono arruolati nell’esercito Israeliano, vorrei sottolineare che la maggior parte erano e ancora adesso sono lone soldiers. Negli otto mesi che sono rimasta in Italia mi raccontavano tutte le loro esperienze, dalle più belle a quelle più difficili, come funzionava e cosa provavano. Piano piano mi sono convinta a tornare, a fare l’Aliyah ed ad arruolarmi. Mi sembrava la decisione giusta da prendere, avevo capito che da parte mia non era giusto nei confronti di Israele tornare a Roma e non restituire niente in cambio dopo tutto quello che avevo ricevuto. Non mi sembra corretto nei confronti dei miei coetanei israeliani che loro facessero la tzavà e io no. Quale era la differenza tra me loro? Mi venivano in mente due cose, la prima è che loro erano cittadini dello Stato ed io non ancora, la seconda era che io ho vissuto li solo per tre anni e gli altri tutta la  vita. In questi tre anni però mi è stato dato così tanto che il minimo per poter ricambiare e per potermi sentire veramente integrata, era arruolarmi, e così feci.

     

    Ora sono una Mefakedet (comandate) nell’aviazione. Il mio ruolo è addestrare le nuove reclute. Da quando sono diventata Mefakedet ho capito l’importanza del mio ruolo, ogni volta ho a che fare con dei soldati che hanno il bisogno dell’aiuto della tzavà, soldati che magari hanno dei problemi a casa o soldati che non hanno finito gli studi, io insieme ad altri ufficiali aiutiamo questi ragazzi. Quando si dice che l’esercito israeliano non lascia mai i suoi soldati indietro, è vero, è sempre pronto ad aiutare, è la spina dorsale della società israeliana.

     

    Vorrei raccontarvi la storia di un mio amico che fa il combattente: qualche mese fa questo ragazzo in mezzo alla notte è dovuto andare ad arrestare un palestinese. Quando arrestano un palestinese viene bendato per non fargli capire dove viene portato e poi gli fanno delle visite mediche. Questo soldato non sapeva il motivo dell’arresto sapeva solo che andava arrestato. Mentre aspettavano tra una visita e l’altra il mio amico ha iniziato a parlare in modo amichevole con questo palestinese, hanno iniziato a scherzare, poco dopo un altro soldato è entrato nella stanza per spiegare al mio amico che la vicenda era molto seria, visto che l’arrestato aveva programmato un attentato per qualche giorno dopo. Questo amico è un lone soldier come me e viene da Roma. Racconto l’episodio per comprendere come sia difficile a volte capire le intenzioni di chi ti trovi di fronte. Specialmente per chi arriva da l’Europa a volte non si può neanche immaginare che una persona che a prima vista ha un’apparenza del tutto normale ed innocua, che potrebbe essere il tuo vicino di casa è in realtà aspiri alla tua distruzione.

     

    Durante questo periodo molto difficile per Israele ho percepito molto odio sui social, sinceramente l’ultima cosa che al mondo serve è una “guerra” digitale. Nessuno, a parte i cittadini israeliani, i palestinesi, e chi è stato in Israele in guerra, può veramente capire cosa si prova a stare qui adesso. Una mia amica appena qualche giorno fa mi ha detto “non abbiamo avuto tempo di mangiare oggi, ogni cinque minuti dovevamo correre nel bunker”, un’altra che abita più al centro “se avessimo vissuto al sud non avremmo potuto festeggiare Shavout”. Può sembrare una cosa da poco, ma vorrei far provare a tutti quelli che odiano Israele sui social, che parlano di reazione spropositata, anche solo una volta, i quindici secondi di terrore per metterti in salvo quando sai che il razzo sta per cadere. Quello che voglio dire è che ognuno può avere le proprie opinioni su tutto quello che succede, ma queste non rende legittimo quello che sta succedendo adesso in Italia, tutte le manifestazioni violente, le minacce di morte. La gente non si informa come si deve, e prende per buona tutta la propaganda palestinese e le tonnellate di notizie false che girano. Le persone dovrebbero capire che fino a quando non vivi gli accadimenti in prima linea avrai sempre una visione parziale di quello che succede e purtroppo si tratta spesso di una visione non neutrale ma già piena di preconcetti sempre a sfavore di Israele.

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