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    Commento alla Torà. Parashà di Vaetchanàn: il sabato di consolazione

    Nachamù, Nachamù ‘Amì ” (Consolate, consolate il mio popolo). Queste sono le prime parole della haftaràche leggiamo in questo Shabbàt, e questo Shabbàtè propriamente chiamato “Shabbàt Nachamù“, il sabato della consolazione che segue il giorno del 9 di Av, quando fu distrutto il Bet Ha-Mikdàsh di Gerusalemme e il popolo fu condotto in esilio.

    Rav David Feinstein(Belarus, 1929-) nel suo commento Kol Dodì alle haftaròt (p. 194), scrive che “oltre al suo messaggio di conforto dopo la distruzione di Bet Ha-Mikdàsh, questa haftaràè adatta alla parashàdi Vaetchanàn. Infatti la parashà parla dei figli d’Israele che andavano in Eretz Israel e del loro ritorno dopo l’esilio”.

    Le parole “Nachamù, Nachamù” parlano anche a noi. È un grande consolazione vedere le nuove generazioni che crescono in modo normale con genitori e nonni. La generazione dei cosiddetti “Baby Boomers” nati nel dopoguerra non ha avuto un tale privilegio. Gran parte dei nonni dei Baby Boomers in Europa non sopravvissero al Churbàn, alla distruzione che colpì il popolo ebraico. I genitori dei Baby Boomers hanno passato molte tribolazioni, nell’inferno di Auschwitz o in fuga per sfuggire ai nazisti. Dopo la guerra sono tornati a una vita normale, allevando  i loro figli, mandandoli alle scuole ebraiche per imparare a vivere da ebrei insieme ad altri ebrei. La generazione dei giovani di oggi è cresciuta senza tribolazioni e senza i vicini ricordi di sofferenze e persecuzioni. Ecco perché questo Shabbàt è un giorno di grande consolazione.

    Dopo la guerra in Europa c’era molta disperazione e vi sono state persone che sono diventate meno scrupolose nell’osservare le mitzvòt. Forse questa parashà si riferisce anche a questo quando Moshè ci avverte: “Non aggiungete ne togliete nulla alle mitzvòt” (Devarìm,4:2). Cosa c’è di sbagliato nel fare alcune modifiche ai mitzvòt?  

    R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento alla Torà afferma che: “ogni mitzvàdeve essere eseguita nella sua integrità come ci è stata data dall’Eterno. Non ci è permesso di trattarla in modo arbitrario, introducendo l’opinione umana nella Torà”.

    È comprensibile che delle persone per disperazione abbiano abbandonato l’osservanza di alcunemitzvòt. Questo non è un fenomeno nuovo. Qualcosa di simile avvenne durante l’Esilio in Babilonia quando il profeta Geremia chiese agli esiliati di continuare a mettere itefillìn e di affiggere le mezuzòtagli stipiti delle case anche in Babilonia.

    Rashì (Francia, 1040-1105) cita il versetto del profeta Geremia nel quale disse: “Mettete dei segnali” (31:20) e commenta: “Anche quando andrete in esilio, distinguetevi osservando le mitzvòt: mettete i tefillìn e fate mezuzòt, in modo che non siano cose nuove quando ritornerete”. La difficoltà in questo commento è che tefillìnmezuzòt sono obblighi personali che non cessano di esistere al di fuori di Eretz Israel. Perché il profeta Geremia doveva dire agli ebrei che andavano in esilio di continuare a indossare tefillìn?

    R. Chayim Yosef David Azulai (Gerusalemme, 1724-1806, Livorno) detto Chidà dalle sue iniziali, nel suo commento Penè David spiega che per evitare che a causa delle persecuzioni alcuni ebrei abbandonassero le mitzvòtil profeta Geremia disse loro di non scoraggiarsi. E nel suo messaggio li consolò dicendo loro che l’esilio avrebbe avuto termine e sarebbero tornati in Eretz Israel.

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