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SPECIALE PESACH 5784

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    Evelyne Aouate: una madame sefardita in Sicilia

    I ricordi sono sempre in benedizione. E sono tendenzialmente veri, tendenzialmente commossi e istituzionalmente sentiti. Il mio ricordo di Evelyne nasce dai passi mossi insieme, prima ancora che la parola “Palermo” si trasformasse per alcuni in un esotico interesse ebraico, per altri in una perdita di tempo e per altri ancora in un salotto importante, quello di Evelyne Aouate, dove molti rappresentanti politici, culturali ed istituzionali hanno accompagnato illustri ospiti per mostrare loro la presenza ebraica in Sicilia.

     

    Evelyne nella mia vita ha avuto vari ruoli e vari sorrisi, ma tutti eleganti e signorili, come solo lei sapeva elargire. Da giovanissimo rabbino di Napoli, lei ed alcune altre signore di Palermo, erano appunto “le palermitane” amiche di famiglia che venivano a trascorrere lo Yom Kippur o Pesach a Napoli quando non erano a Parigi o in Israele. Perché Evelyne, come molti di noi, aveva radici nel mondo mediterraneo ed una presenza forte da imprenditrice a Palermo. Donna geniale,  ebbe la grande intuizione di importare a Palermo il prêt-à-porter per gli abiti da sposa: una rivoluzione! Ed infatti non era possibile passeggiare con Evelyne in nessuna strada di Palermo senza che qualche giovane o meno giovane sposa non la salutasse e lei, Evelyne, sempre sorridente rispondeva: “Un abbraccio a mamma, mi raccomando!” Perché la mamma mediterranea, sia ebrea, siciliana o turca, è un “luogo”  da non dimenticare se lavori nel mondo delle spose.

     

    Ed i passi di Palermo sono il secondo luogo di incontro tra me ed Evelyne, in quello che fu il progetto “Sud” o “Meridione” o Shavei Israel nel Meridione un progetto al quale ho lavorato per quattro anni della mia vita, vivendo in Israele, ma trascorrendo una settimana al mese a Palermo. I titoli del progetto, i modi per chiamarlo ed i suoi patrocinatori sono diversi rispetto all’istituzione con la quale decidiamo di relazionarci. Ma al di là delle istituzioni è la presenza sul territorio che ha fatto la storia ed Evelyne è stata il motore di una realtà, quella del piccolo nucleo ebraico di Palermo,  che con lei ha rischiato di cambiare. La storia di un ebraismo fatto di volontà e non di burocrazia, di lavoro e di impegno e non di timbri, protocolli, accordi…un lavoro, quello dei volontari comunitari, che segna una profonda differenza lì dove la burocrazia e l’accentramento politico istituzionale segnano il cristallizzarsi dei sogni, prima ancora della morte delle persone. Evelyne era viva. Ebraicamente era viva durante gli Shabbatot che organizzavamo insieme a casa sua, durante i sedarim di Pesach presso la sala della Chiesa Valdese,  era viva all’accensione della Chanukia nel Palazzo Steri, ex prigione della Inquisizione. Evelyne era viva culturalmente durante i convegni organizzati all’archivio Damiani Almeyda per il 12 gennaio, giorno della cacciata deli ebrei dalla Sicilia, durante le giornate di studio all’Università di Palermo, le centinaia di cerimonie, impegni, conferenze che promuoveva ed alle quali partecipava. Evelyne era viva perché sognava una sinagoga a Palermo e da volontaria ebrea era riuscita ad ottenere quello che è stato definito uno “storico accordo” che prevedeva  l’apertura di una sinagoga nei locali dell’ex Oratorio di Santa Maria del Sabato concessi in comodato gratuito dall’arcivescovado nel 2017.

     

    E nell’esatto momento nel quale sono costretto a scrivere le parole “comodato gratuito…concesso…accordo” vedo la morte del volontariato e la vittoria della burocrazia. E come conseguenza abbiamo la morte del sogno. Nonostante l’impegno di Evelyne, la sua caparbietà, la sua elegante testardaggine non è riuscita a vincere contro il “problema sistemico”, l’obbligo di controllo del centro rispetto ad una periferia che a volte è molto più viva e vibrante del sistema centrale, ma al quale sembra dover obbedire come fosse una colonia. Evelyne che ha pagato il prezzo della storia coloniale del suo paese natale, l’Algeria, ed  ha pagato anche il prezzo di una visione colonialista della gestione delle cose ebraiche, in perenne conflitto tra il volontariato attivo ed il potere posto al controllo e non all’aiuto.  E adesso non ci resta che ripetere che il suo ricordo sia in benedizione, quando in realtà, nella storia della mia amicizia con Evelyne, sento vibrante il suo ricordo come monito e come lezione di vita.

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