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    Mal di tablet

    «Non vedo l’ora di tornare a scuola!» è la frase che ho sentito più spesso in questi mesi, pronunciata da alcuni giovani pazienti che seguo come psicoterapeuta. Sembra paradossale, ma in queste parole è racchiuso tutto il malessere che gli studenti hanno vissuto durante la pandemia da Coronavirus. 

    I bambini e gli adolescenti di oggi sono stati definiti “nativi digitali” in quanto sono a contatto con la tecnologia dal momento in cui nascono, e sin da subito riescono a orientarsi molto bene con l’uso dei dispositivi elettronici e la navigazione in internet. Come adulti invece ci meravigliamo nel vedere un bambino di pochi mesi muovere il dito sul touch screen, o ancora mettersi in posa davanti alla telecamera pronto a sorridere a un selfie. Ad accelerare il processo di digitalizzazione ha contribuito la pandemia in quanto sempre più attività quotidiane sono diventate telematiche ed i giovani di conseguenza hanno spostato gran parte delle loro attività sociali sui social network. In questo caso la tecnologia è stata una risorsa insostituibile, ma a quale prezzo?

    Uno studio britannico ha evidenziato che si passano fino a tredici ore al giorno tra computer, cellulare, tv e videogiochi: fino a che punto se ne fa un uso corretto? Basandoci su un recente report del Parlamento Europeo, si può affermare che l’aumentato utilizzo degli strumenti digitali per stare insieme agli altri può avere conseguenze negative come, tra le altre, l’abbandono delle relazioni significative per rifugiarsi nel mondo digitale. Questo processo può quindi favorire l’isolamento, la segregazione e la solitudine soprattutto negli adolescenti, i quali si confrontano sempre di più con modelli spesso non reali, profili e foto ritoccate che generano insicurezze quando ci si confronta col reale dello specchio. Al tempo stesso online proliferano le fake news e aumentano esponenzialmente i casi di bullismo, che esistono certamente anche offline, ma che si amplificano quando si è dietro la protezione dello schermo.

    Se da un lato quindi i dispositivi tecnologici sono un importante strumento di apprendimento, dall’altro i bambini li usano perché lo vedono dagli adulti o dagli amici, perché sono diventati un mezzo con cui creare legami, o ancora perché è la trovata più semplice, meno faticosa e più soddisfacente. Con un cellulare o un tablet ci si diverte con passività: i bambini vengono assorti dalla riproduzione continua di un video dopo l’altro su youtube, mentre i più grandi si perdono nei social network. Non c’è più tempo libero, neanche quello per annoiarsi! Una giusta dose di noia è invece preziosa per i giovani, perché il vuoto che crea rende possibile la nascita di un desiderio, di creare, di sognare, di sapere.

    È quindi necessario che il genitore insegni loro a usare questi mezzi con responsabilità e consapevolezza, fissando i limiti. I bambini non sono in grado di autoregolarsi ed hanno bisogno di sentirsi accompagnati da un adulto che sappia dire anche di no per passar loro un messaggio, per favorire la loro autonomia. Sembra impossibile? Forse, sicuramente è difficile. D’altronde Freud stesso sosteneva che i tre mestieri impossibili fossero proprio governare, psicoanalizzare ed educare! Sono tali in quanto hanno a che fare con il limite. Se educare quindi è impossibile, un buon genitore – o insegnante – deve essere conscio che si esercita questa funzione in modo sempre, più o meno, insufficiente, mancante. Non esiste un manuale di istruzioni perfette per educare, e se Freud sembra scoraggiarci, cari genitori, non preoccupiamoci troppo: “siamo sulla stessa barca”!

     

    Susanna Ascarelli, Psicologa – Psicoterapeuta

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