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    Si discute a New York sull’istruzione ebraica. Ne parliamo con Rav Riccardo Di Segni

    Una forte polemica politica e giornalistica sta investendo il sistema educativo delle comunità chassidiche di New York. Gli ebrei dello stato di New York sono circa due milioni, la metà a New York city: il 12 per cento della popolazione e la più grande concentrazione ebraica del mondo al di fuori dello stato di Israele. Di questi oltre il 10 per cento, circa 250 mila, con una tendenza demografica in forte aumento, sono ebrei “chassidici”, che cioè vivono secondo le regole tradizionali dell’ebraismo dell’Europa Orientale. Il gruppo di gran lunga più numeroso è quello di origini ungheresi che prende il nome da Satmar, una città che oggi appartiene alla Romania: così conservatore da rifiutare ogni legittimità allo Stato di Israele. Satmar e le altre comunità chassidiche  mantengono un sistema scolastico molto tradizionale, incentrato sullo studio del Talmud e dei suoi commenti, con pochissima istruzione generale. Una lunga inchiesta del New York Times, pubblicata qualche giorno fa, ha accusato queste scuole di non fornire ai loro allievi alcuna nozione di scienze e storia, di insegnare loro solo pochissima matematica, un inglese del tutto insufficiente (perché la lingua d’uso è lo yiddish), proibendo ogni contatto col mondo circostante e rendendoli così incapaci di vivere al di fuori della comunità. Se si usano i test di valutazione delle scuole pubbliche, ha sostenuto il giornale, quasi tutti gli allievi di queste accademie chassidiche risultano insufficienti. La commissione statale per l’istruzione di New York voterà in questi giorni una delibera per obbligarle a inserire nell’insegnamento le materie di interesse generale. L’iniziativa ha, suscitato una forte protesta dei gruppi chassidici, i quali sostengono che una regolamentazione del genere violerebbe la loro libertà religiosa e, più in positivo, che l’insegnamento tradizionale è un successo, produce giovani integrati nella società e capaci di condurre una vita ricca di senso e di affermazioni anche professionali. I problemi di New York non sono però affatto isolati: questioni analoghe sono state sollevate anche in Israele e alcune comunità chassidiche, come quelle di Belz, hanno accettato di inserire nel curriculum dei loro studi l’acquisizione delle competenze di base in materie laiche (inglese, ebraico, matematica, scienze), richiesta dal ministero dell’istruzione.

     

    La questione è delicata, perché riguarda il rapporto fra la conservazione della tradizione ebraica con l’integrazione nel mondo contemporaneo. Shalom ne ha parlato con Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità di Roma.

     

    Rav, che cosa pensa di questa polemica?

     

    Non si tratta affatto di una questione nuova, se ne discute da secoli. La discussione fu caldissima, per esempio, nel periodo dell’emancipazione degli ebrei europei. Ma non vi è mai stato un modello univoco, ci sono state diverse posizioni, dalla concentrazione quasi totale delle scuole sulle materie ebraiche a diversi gradi di apertura. E non vi sono mai state scuole ebraiche che non insegnassero competenze di base come a far di conto. Anche quando l’ebraismo italiano era del tutto tradizionale, abbiamo per esempio un’importante responso di un maestro rabbinico del Settecento, Laudadio Sacerdoti di Modena, che delinea una scuola a tempo pieno, dall’alba al tramonto, in cui l’insegnamento tradizionale è predominante, ma c’è spazio anche per altre competenze di interesse generale.

     

    Perché dunque questo attacco alle scuole ebraiche?

     

    Me lo chiedo anch’io. L’articolo del New York Times è uscito in prima pagina l’11 settembre, quando forse c’erano altre cose su cui riflettere.

     

    L’insegnamento nelle scuole ebraiche italiane è molto più simile a quello laico, lasciando uno spazio limitato allo studio della tradizione ebraica. Le sembra una soluzione accettabile? Potrebbe essere migliorata?

     

    Quando le leggi razziste obbligarono tutte le comunità ad aprire delle scuole per i ragazzi espulsi dal sistema pubblico, queste scuole erano ebraiche perché frequentate da ebrei, ma avevano solo due ore alla settimana di materie ebraiche. L’abbandono della cultura ebraica è durato a lungo. Da allora è passato molto tempo e la situazione è certamente migliorata, ma ancora l’insegnamento ebraico è insufficiente. Io credo che bisognerebbe fare uno sforzo in più.

     

    I rabbini italiani hanno tutti anche una formazione alta in materie non religiose. Lei per esempio è anche un medico, come lo furono molti grandi maestri dell’ebraismo, a partire dal Rambam. Secondo lei questa doppia cultura è importante o costituisce un limite rispetto all’approfondimento della tradizione?

     

    Ci sono vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è che la compresenza di due culture permette di vedere meglio la complessità delle cose. Lo svantaggio è la difficoltà, dovendo dividere lo studio, a raggiungere un livello di eccellenza. L’obiettivo di chi propone uno studio esclusivamente talmudico è di raggiungere l’eccellenza, di far crescere dei grandi maestri. Il nostro modello è quello dei collegi rabbinici, nati per impulso dei sovrani illuminati nell’Europa centrale dell’Ottocento, che chiedevano di affiancare alla cultura rabbinica anche competenze generali. Ma almeno in Italia c’era già una tradizione in questo senso.

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