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    “Morbo K”: quando i medici del Fatebenefratelli salvarono “un piccolo universo”

    La comunità ebraica che usciva dal ghetto di Roma nel 1870 era composta di circa 5.000 persone. La popolazione attiva di questo gruppo confessionale era rappresentata, in larga misura, da piccoli artigiani e commercianti e viveva la condizione tipica degli strati popolari della società coeva.

     

    Al 1938 tale popolazione, anche grazie all’arrivo di molti ebrei dal Centro e dal Nord d’Italia, aveva raggiunto le 12.000 unità circa; i mestieri degli ebrei erano estremamente diversificati rispetto all’Era del ghetto. Infatti, molti si erano inseriti nel tessuto sociale, economico, culturale e politico della città nel periodo che va dalla Breccia di Porta Pia alla vigilia delle leggi antiebraiche. Tuttavia, alla fine degli anni Trenta del Novecento la componente ebraica della città era ancora fortemente caratterizzata dalla presenza di piccoli negozianti e venditori ambulanti, anche se era cresciuto il numero di docenti delle scuole e delle università, di liberi professionisti, di dirigenti e semplici dipendenti nel settore pubblico e in quello privato. Erano ormai distribuiti in diverse aree della città e non più concentrati nel solo rione Sant’Angelo.

    Dopo due generazioni in cui gli ebrei erano stati equiparati agli altri cittadini in termini di diritti civili, improvvisamente furono espulsi dalle università, dalle scuole, dai pubblici uffici e radiati dagli albi professionali. Tuttavia, com’è noto, il momento peggiore fu quello dell’occupazione nazista della città (dall’8 settembre 1943 al 4 giugno del 1944). In quell’arco cronologico maturarono le deportazioni degli ebrei ma si verificò anche il salvataggio della stragrande maggioranza di essi. Infatti, circa 80% di questi si salvò grazie all’intervento della popolazione che riuscì a proteggerli mentre molti si rifugiarono negli istituti religiosi. Va, in ogni caso, sottolineato che le deportazioni successive la prima retata del 16 ottobre 1943 furono organizzate con l’aiuto e a causa alle delazioni di cittadini italiani. Infine, va segnalato che la durata dell’occupazione e la minore organizzazione dei nazisti rispetto ad altre aree europee favorirono il salvataggio di una parte coesistente della popolazione ebraica. 

     

    E in questo scenario che va contestualizzata l’opera del Fatebenefratelli. Grazie ai dati forniti dalla dottoressa Addolorata Vassallo dell’Archivio Clinico dell’Ospedale San Giovanni Calibita, su autorizzazione del Padre Priore Fra Angelo Lopez, è stato possibile identificare un certo numero di ebrei ricoverati presso la struttura ospedaliera sita sull’isola Tiberina.

    Quest’operazione fu possibile in virtù dell’attività meritoria di alcune persone che rischiarono la propria esistenza per salvare gli ebrei; fra queste, va ricordata Teodora (Dora) Focaroli, un’infermiera dell’Ospedale Israelitico, anch’esso presente sull’isola Tiberina, che organizzò la fuga dei ricoverati presso il Fatebenefratelli. Qui intervennero i medici Adriano Ossicini e Giovanni Borromeo che inventarono la malattia definita “Morbo K”, dalle inziali degli ufficiali tedeschi Kesselring e Kappler. Fu creato una sorta di reparto per questa ipotetica malattia, altamente infettiva per chiunque volesse anche solo avvicinarsi ai pazienti. 

     

    Quest’operazione fu possibile anche grazie all’aiuto del Maresciallo Gennaro Lucignano che dirigeva il comando della Polizia fluviale. Questi riuscì a ottenere alcuni permessi per agire durante le ore di coprifuoco e con tal espediente fu in grado di nascondere diverse famiglie di ebrei fino al momento della liberazione.

     

    È difficile sapere con esattezza quanti furono gli ebrei ricoverati anche perché molti erano nascosti sotto falso nome oppure non vennero registrati. E’ stato possibile individuarne una quarantina e fra questi erano prevalenti i maschi (circa il 70% del totale). Il fenomeno è spiegabile con il fatto che il 16 ottobre del 1943 molti pensarono che i tedeschi avessero organizzato la retata per arrestare giovani maschi adulti da inviare ai campi di lavoro. Infatti, durante il “sabato nero” furono catturate prevalentemente donne ma anche molti vecchi e bambini. Diversamente, nei periodi successivi al primo rastrellamento furono arrestati in maggioranza uomini perché maggiormente esposti alla possibilità di essere individuati a causa delle necessità di reperire le risorse per sopravvivere, mentre donne e bambini rimanevano nascosti.

     

    Le persone salvate al Fatebenefratelli erano quasi tutte di origine romana e vivevano nelle aree in prossimità dell’isola Tiberina. Si trattava, in larga misura, di piccoli negozianti o di casalinghe ma tra essi vi erano anche scolari, studenti e impiegati. Un piccolo universo composto di persone che ebbero salva la vita grazie all’intervento di una rete di protezione che fece la differenza rispetto a quanto accadeva contestualmente in molti luoghi in Europa, dove la tragedia della Shoah distrusse intere comunità.

     

    Estratto dell’intervento del Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma Claudio Procaccia al convegno “Holocaust, medicine and legacy” presso l’Università La Sapienza.

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