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    Uno Tzaddìk è colui che sogna e aiuta a sognare

    Il piccolo Stefano Michaèl Gaj Taché, uno Tzaddìk come tutti i bambini, fu ucciso quarant’anni fa da esseri indegni e disumani mentre ancora si trovava assieme ad altri bimbi e adulti, uomini e donne, all’esterno del Tempio Maggiore di Roma. Gli ebrei si erano uniti lì solo per pregare, per benedire i propri figli, per cantare e gioire nella festa di Sheminì ‘Atzèret, una solennità per la quale la stessa Torà chiede ad ogni ebreo solo di essere felice. ‘Atzèret significa tener dentro, fermare, arrestare nel proprio animo la contentezza trascorsa durante Succòt e il tempo sacro passato insieme a Rosh Hashanà e Yom Kippùr. Quel terribile giorno lasciò invece nell’animo di ogni ebreo della nostra Comunità solo dolore e depressione, tristezza e rabbia che non terminò più. 

    Quest’anno si offre un Sèfer Torà in memoria di Stefano Michaèl, che viene accompagnato fino al Tempio Maggiore anche da tutti gli alunni della nostra scuola. Molti hanno chiesto se vi è una fonte rabbinica dalla quale si possa imparare l’importanza di ricordare una persona scomparsa attraverso la scrittura di un Sèfer Torà. I nostri Maestri insegnano cha ogni ebreo ha una sua personale lettera, un piccolo passo inciso nella Torà che tratta della sua esistenza, del suo carattere e della sua vita trascorsa o anelata. Comporre un Sèfer Torà è dunque anche descrivere in modo velato un’indole, un temperamento personale e un progetto di vita intrapreso o spezzato, un sogno desiderato o mai attuato.

    Il libro della Genesi si conclude con la richiesta, o meglio la sola e unica invocazione che Yosèf ha-Tzadìk – Giuseppe il Giusto, fece ai fratelli qualche istante prima di morire: «Dio verrà un giorno a farvi visita e vi farà uscire da questo paese verso il paese ch’egli ha promesso ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe… Allora voi porterete via di qui le mie ossa». Per tale motivo gli ebrei non uscirono dall’Egitto prima di aver trovato la bara di Yosèf che gli egiziani avevano provato ad occultare. Nell’anno 1941 il grande Maestro Shaùl Israeli z”l di Gerusalemme – che ben conosceva il dolore dei nostri fratelli in Europa sotto il dominio nazista – disse: “Yosè flottò e soffrì dall’inizio alla fine della sua vita affinché si potessero avverare i suoi sogni, e ci riuscì. Egli desiderava insegnare che nulla può impedire ad una persona di fare in modo che i propri desideri possano un giorno avverarsi. Per questo egli chiese agli ebrei di allora e di ogni generazione di porre il suo Aròn accanto ad un Aròn Ha-Kòdesh, l’armadio con le sue ossa a fianco di un armadio contenente un Sèfer Torà, e di camminare con entrambi verso la terra di Israele. Ogni Yehudì dovrà sempre vedere con i suoi occhi, con la sua mente e con il suo cuore le due casse poste una di fronte all’altra e ricordare che la vita è fatta di ambizioni che se accostate a ciò che è scritto nella nostra Torà potranno costruire il nostro futuro e il futuro di tutto il popolo ebraico”.

    A Stefano Michaèl Gaj Taché sono stati cancellati i sogni, i desideri, il sorriso e la vita ma non il suo grande insegnamento. I suoi assassini, assieme a tutti coloro che li aiutarono tacitamente, pensarono di annullare in questo modo anche le nostre aspettative e le nostre ambizioni. Sbagliarono. Il Sèfer Torà che abbiamo scritto in suo ricordo sarà la più grande lezione che questo piccolo Tzaddìk ha lasciato a noi e agli alunni delle nostre scuole. La Torà continuerà ad essere sempre e comunque la nostra vita e con la Torà e anche con i nostri cari che non sono più tra noi cammineremo sempre verso Èretz Israèl. È lì che un giorno ci ritroveremo tutti assieme. Che il tuo ricordo sia di benedizione piccolo Stefano Michaèl, e che tu possa stare sempre accanto al Trono divino nel mondo dell’aldilà fino al giorno del tuo ritorno tra noi. Amèn.

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