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    Operazione spade di ferro giorno 51. La sceneggiata dei terroristi

    L’accordo sospeso da Hamas e poi rimesso in vigore

    C’è stato un momento di preoccupazione, di dolore e
    di rabbia in Israele ieri nel tardo pomeriggio, quando al tramonto “l’ala
    militare di Hamas” ha annunciato di sospendere a tempo indeterminato la
    consegna concordata dei 13 rapiti, seconda tappa dell’accordo di tregua, usando
    esili pretesti: Israele non avrebbe fatto arrivare il numero giusto di camion
    di rifornimenti alla parte settentrionale di Gaza sotto il suo controllo e
    avrebbe liberato i terroristi detenuti nell’elenco concordato usando un ordine diverso
    di priorità. Il governo israeliano ha annunciato allora che se la consegna non
    fosse avvenuta entro la giornata di sabato, cioè entro mezzanotte, avrebbe
    ripreso immediatamente i combattimenti. Per riportare al rispetto dell’accordo
    i capi locali di Hamas sono intervenuti allora l’Egitto, che garantisce lo
    scambio sul suo territorio, e perfino il Qatar, che si è assunto il ruolo di
    mediatore, avendo anche la rappresentanza dell’Iran, di cui è stretto alleato,
    e dei capi all’estero di Hamas, che vivono nel suo territorio: entrambi hanno
    fatto pressione finché è stato annunciato che lo scambio sarebbe avvenuto
    comunque entro la serata. È chiaro che si è trattato di un tentativo dei
    terroristi di giocare con le emozioni degli israeliani per rilanciare la posta,
    come spesso tentano di fare in queste difficili negoziazioni. Ma sono stati
    sconfitti anche perché tutta Israele vuole certamente liberare i rapiti, sente
    la loro assenza come un dolore personale; ma è chiaro a tutti che questo è un
    accordo parziale, che bisogna liberare tutti i rapiti e non solo questi
    cinquanta e soprattutto che lo scopo della guerra è impedire che il 7 ottobre
    si ripeta, come si propongono i terroristi. Dunque l’obiettivo è l’eliminazione
    completa di Hamas e la tregua è un prezzo per Israele ma una necessità per i
    terroristi per cercare di sottrarsi al loro destino con la fuga o suscitando
    pressioni internazionali che fermino 
    l’offensiva israeliana anche dopo il periodo concordato e magari conservino
    loro il controllo di Gaza. Dunque l’interruzione precoce della tregua sarebbe
    stata contraria ai loro interessi vitali, un colpo grave che si sarebbero fatti
    da soli.  E alla fine, in tarda serata,
    hanno liberato tredici rapiti.

     

    La seconda liberazione

    Ecco l’elenco degli israeliani liberati ieri: Hila
    Shosani Rotem ed Emily Hand, rapite a Be’eri: Emily era fra le persone di cui
    si temeva fossero state uccise; la loro madre Raya Rotem avrebbe dovuto tornare
    con loro ma è rimasta prigioniera. Alma e Noam Or, rapiti dal Kibbutz Be’eri: il
    padre Dror è rimasto prigioniero. La loro madre, Yonat, è stata assassinata.
    Miya Regev, 21 anni, di Herzliya, è la prima delle persone rapite durante il
    festival della natura Re’im ad essere liberata. È stata rapita insieme a suo
    fratello Itay, che ha meno di 19 anni e dovrebbe dunque essere compreso nella
    categoria dei minori ed entrare nella lista dei liberati, dato che l’accordo
    prevede che le famiglie non debbano essere divise. Essendo Miya in gravi
    condizioni di salute, Israele ha dovuto rinunciare a esigere che venisse
    liberata solo col fratello. Ora è ricoverata all’ospedale Soroka di Beer Sheva,
    uno dei centri di eccellenza della medicina israeliana. Sharon Avigdori e sua
    figlia Noam del Kibbutz Be’eri. Noga Weiss (18 anni) e sua madre Shiri, rapite
    dalla loro casa a Be’eri: esse sono state rilasciate, ma il padre Ilan, un
    membro della squadra di emergenza del kibbutz che ha lasciato la casa al
    momento dell’attacco per difendere la comunità, risulta ancora disperso.
    Shoshan Haran, 67 anni, di Be’eri, è stato prigioniero di Hamas per 50 giorni.
    Oggi è stata finalmente rilasciata, insieme ad altri cinque membri della sua
    famiglia: sua figlia Adi Shoham (38 anni); i suoi nipoti Yahel (3 anni) e Neve
    (8 anni); sua cognata Sharon Avigdori; e la figlia di Sharon, Noam. Tal, il
    marito di Adi e padre di Yahal e Neve, è ancora in prigionia. Accanto agli
    israeliani sono stati liberati senza contropartita dieci lavoratori
    thailandesi. Israele si assumerà le loro cure e assegnerà loro gli stessi aiuti
    che vengono dati ai cittadini. In cambio dei rapiti, durante la notte sono
    stati scarcerati 39 terroristi sotto i 19 anni di età o donne, condannati per
    reati anche gravi di terrorismo, con l’esclusione dell’omicidio. Diversi di
    loro sono tornati alle loro case in Giudea e Samaria e nei sobborghi orientali
    di Gerusalemme e hanno usato la loro liberazione per fare propaganda
    terrorista.

     

    I fronti aperti

    Nonostante il tentativo di Hamas di forzare una
    rinegoziazione dell’accordo, il fronte di Gaza è stato tranquillo anche per la
    giornata di ieri e così sostanzialmente quello settentrionale con Hezbollah. Vi
    è stata però un’operazione di polizia a Jenin, con perquisizioni negli ospedali
    (i cui sotterranei, come si sa, sono la collocazione prediletta per Hamas di
    depositi d’armi, centri comando e posti di combattimento) che ha portato a
    parecchi arresti e all’eliminazione di quattro terroristi che hanno provato a
    opporsi all’azione delle forze di sicurezza. È ancora attivo il fronte
    yemenita. Da lì sono partiti ieri diversi tentativi di bombardamento di Eilat
    con droni e missili da crociera. Gli Houti hanno anche attaccato nel Mar Rosso
    con un drone una nave portacontainer di bandiera maltese ma la cui proprietà è
    attribuita almeno in parte a un industriale israeliano, provocandovi un
    incendio. È il secondo caso di pirateria per opera del gruppo terrorista dello
    Yemen, dopo la nave delle Barbados diretta in Giappone, sequestrata nei giorni
    scorsi, per cui lo stesso governo giapponese ha chiesto assistenza
    internazionale, dato che continua a essere detenuta dai pirati yemeniti. Ci si
    chiede come mai le flotte internazionali antipirateria che stazionano in quelle
    acque da anni per garantire la libertà di navigazione dai pirati somali (che
    hanno agito per parecchi anni, per ragioni di guadagno e non politiche) non
    intervengano di fronte a una minaccia così grave per una delle più importanti
    vie commerciali del mondo.

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