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    Mondo

    Le elezioni a New York: rischi e prospettive

    Un risultato previsto, ma che ha fatto notizia
    Le elezioni comunali, anche quelle delle grandi città, hanno in genere un significato quasi esclusivamente locale, o al massimo sono prese come un segnale delle tendenze dell’elettorato per le prossime elezioni politiche. Non è così però per il voto che si è svolto l’altro ieri a New York, con la netta vittoria del candidato democratico Zohran Mamdani (con circa il 57,8 %), sull’indipendente Andrew Cuomo (30,2%) e sul repubblicano Curtis Sliva (10,5%). Sul piano della politica non si tratta affatto di una sorpresa, non solo perché i sondaggi prevedevano tutti questo risultato. New York City è sempre stata democratica, ha avuto costantemente, con poche eccezioni, sindaci democratici, alle presidenziali dell’anno scorso Kamala Harris col 68% dei voti doppiò Trump che ne ottenne appena il 30%. Dunque la notizia non deriva da questo risultato e neppure nella dimensione della città: New York è solo all’undicesimo posto nella classifica delle grandi conurbazioni dietro a Tokyo, Delhi, Shangai ma anche a due metropoli del continente americano, Città del Messico e San Paolo. Anche nella classifica economica New York è solo seconda dietro a Tokyo, ma conserva pur sempre il suo straordinario valore simbolico.

    Chi è il nuovo sindaco
    Ciò che ha attratto l’attenzione di tutti i politici e i media del mondo è l’identità del vincitore, Zohran Mamdani, nato in Uganda da una famiglia musulmana di intellettuali (il padre professore di “studi postcoloniali”, la madre regista cinematografica) di origini indiane, trasferito poi a New York all’età di 7 anni, laureato in “Studi africani” nel non famosissimo Bowdoin College nel Maine. A parte la carriera di musicista rap, tentata senza molto successo, il trentaquattrenne Mamdani si è dedicato esclusivamente alla vita politica, sempre su posizioni islamiste e di estrema sinistra. Una quindicina d’anni fa è stato fra i fondatori nella sua sede universitaria del movimento anti-israeliano “Students for Justice in Palestine”; ha fatto campagna per il “socialista” Bernie Sanders fin dalle presidenziali di otto anni fa, è entrato nel gruppo dei Democratic Socialists of America (DSA), che non sono affatto socialdemocratici, ma l’ala più estremista di sinistra del partito democratico. Dopo appena cinque anni di esperienza come consigliere nell’Assemblea dello Stato di New York, ha vinto inaspettatamente la primavera scorsa le primarie per la candidatura democratica a sindaco di New York e poi facilmente ha conquistato la carica.

    Il programma di Mamdani
    Le sue posizioni corrispondono alla carriera. Si è dichiarato per la riforma (cioè il disarmo o almeno il depotenziamento) della polizia, per la ristrutturazione (in senso abolizionista) del sistema carcerario, per la regolamentazione pubblica obbligatoria di affitti (con forti sussidi pubblici) e dei prezzi dei consumi di base, per l’istituzione di mercati gratuiti comunali dei generi alimentari, di trasporti pubblici altrettanto gratuiti, di un innalzamento radicale delle tasse al limite dell’esproprio per i cittadini più benestanti. In termini generali ha proclamato un’ideologia anticapitalistica, un forte antagonismo nei confronti di Israele, una solidarietà senza limiti ai movimenti armati islamici e comunisti, in particolare alla “lotta armata palestinese”, un caldo legame con dittature come quelle di Cuba, Venezuela, Iran. Ha molto sottolineato la sua identità musulmana, fino a usare spesso l’arabo (che non è affatto la sua lingua di famiglia o natale) per caratterizzarsi nei suoi interventi trasmessi in televisione.

    Perché ha vinto?
    È chiaro che la ragione della meraviglia, della perplessità e anche della paura di molti si possa riassumere nella domanda: come mai la capitale economica dell’Occidente capitalistico, che gode di ottima salute economica grazie alle innovazioni economiche e finanziarie in corso, ha eletto per amministrarla un nemico esplicito del capitalismo? Come mai il secondo comune al mondo per popolazione ebraica (a New York vi sono circa 960.000 ebrei) ha votato in proporzione così alta un candidato sindaco che si proclama nemico di Israele e disposto a organizzarne il boicottaggio, che ha dichiarato di voler arrestare il primo ministro israeliano Netanyahu se entrerà a New York (anche se la legge americana non glielo consente)? Senza dubbio sulla prima ragione di perplessità ha pesato il paradosso per cui in buona parte dell’Occidente (negli Usa come in Italia) i sostenitori della sinistra e delle politiche socialiste non sono i lavoratori che in teoria dovrebbero beneficarne, ma i ceti urbani ideologizzati. A New York avrebbero votato chiunque contro Trump. E sulla seconda è stato influente il fatto che la popolazione ebraica americana comprende due gruppi fortemente antisionisti: l’estrema sinistra soprattutto giovanile, educata da buona parte dei filoni “reform” e “conservative” a pensare che il cuore dell’ebraismo sia non il rispetto della tradizione religiosa e l’osservanza dei precetti, ma la questione della giustizia sociale riassunta nello slogan del “Tikkun Olam” (“riparazione del mondo”); e dall’altro lato dello spettro delle opinioni, gli eredi di dinastie chassidiche come i Satmar, che in nome della tradizione rifiutano la legittimità dello Stato di Israele. Ciononostante i sondaggi dicono che la maggioranza degli ebrei di New York si è differenziato dal resto della popolazione non votando per il nuovo sindaco.

    Che succederà ora?
    Mamdani ha fatto molte promesse che non potrà mantenere. Sui negozi alimentari e sui trasporti gratuiti ha già iniziato a fare marcia indietro, dato che non ha i soldi per realizzarli e certamente non sarà aiutato né dal governo federale né da quello dello Stato, che hanno altre idee. La sua possibilità di alzare le tasse è limitata dalla legge, come i suoi progetti internazionali. Ma certamente ha forza (per esempio il comando della polizia) per affermare una svolta e ostacolare i gruppi contro cui ha fatto campagna, fra cui la componente ebraica. Bisogna prevedere che per molti ebrei la città guidata da lui sarà molto meno ospitale, in tempi in cui l’antisemitismo anche violento è già in forte crescita. La New York ebraica di tanti film e tanta letteratura sarà ridimensionata, ci sarà un’emigrazione verso Israele o altre città americane. Le conseguenze più importanti però avranno carattere politico generale: è possibile che l’elezione di Mamdani, per scontata che fosse, possa contribuire a convincere l’elettorato democratico ad appoggiare l’ala più estremista, radicalizzando tutta la sinistra americana, com’è accaduto altrove in Europa (Spagna, Gran Bretagna, Francia). Ma se la nuova amministrazione deludesse, vi potrebbe essere a medio termine, in tempo per le prossime presidenziali, un contraccolpo significativo in direzione opposta dell’elettorato. È il piano su cui verosimilmente lavora Trump.

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