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    La decisione della Santa Sede di aprire agli studiosi dal 2 marzo 2020  il fondo Pio XII dell’Archivio Segreto Vaticano, il quale comprende il periodo di siffatto pontificato (dal 1939 al 1958), interessa gli addetti ai lavori e costituisce un atto di apertura, ma non necessariamente di tempestività.

    Nel sito ufficiale dedicato alla causa di canonizzazione di Papa Eugenio Pacelli, vi è una pagina dedicata all’ “Opera del Papa in favore degli ebrei di Roma”. Si tratta di una documentazione preziosa, che consigliamo vivamente di visionare. Un piccolo appunto  potrebbe essere fatto nei riguardi della distinzione fra ebrei e italiani, laddove si  scrive che la Guardia Palatina era piuttosto una struttura per salvare italiani perseguitati dai nazisti, e non per salvare gli ebrei, implicando che ebrei e italiani fossero cose diverse oppure che essere ebreo escludesse l’italianità (La carità di Pio XII verso gli ebrei perseguitati a Roma: parlano i fatti e le testimonianze). 

    È una nostra notazione scaturita da eccesso di puntiglio? Non abbiamo la qualità necessaria per scrivere su “L’Osservatore Romano” ma, se potessimo, lo  rileveremmo anche in siffatta sede.

    L’ingratitudine è fra i peccati veniali oppure fra quelli di maggior portata? Difficile a dirsi, quanto meno per lo scrivente, il che non toglie che tale connotazione sia da evitare, specie per chi ha avuto dei congiunti salvi grazie alla generosa ospitalità nei conventi. Non sappiamo se tale gesto abbia un premio postumo, ma vedendo le generazioni nate grazie all’apertura dei conventi, diremmo di sì.

    Ciò posto, vi è stato uno scarto fra i Papati, e col dovuto rispetto per il Vicario di Cristo, non pensiamo che sia irriguardoso rilevarlo. Cosi come non è irriguardoso volgere il pensiero a quei più di mille ebrei stipati nei carri bestiame diretti ad Auschwitz per i quali non si fece ciò che si sarebbe dovuto fare, quanto meno in termini di un robusto tentativo.

    Rimangono quindi due prospettive, quella degli scampati e quella dei non scampati, e dopo aver accennato alla gratitudine accenniamo all’ingiustizia che comporterebbe la mancata considerazione di un’opinione che non possiamo conoscere – semmai quando non ci saremo più – che è quella dei morti ammazzati dal gas, dopo essere stati torturati.

    La complessità del mondo e la sua crudeltà, il ruolo del caso nella distribuzione del bene e del male, non potranno mai intaccare questa duplice prospettiva. Le vittime stipate nei carri bestiame si sarebbero potute salvare? Non essendoci stato il predetto intervento robusto (sui silenzi vi è un generale consenso), non possiamo fornirne risposta. E quindi, tutto si tiene, la gratitudine eterna per la salvezza di tanti e il rammarico per la mancata salvezza di tanti altri. Perché qui non è questione di polemiche alquanto inutili quanto di paura di guardare in faccia i non scampati che, loro sì, non perdonerebbero la nostra leggerezza, così come gli scampati non tollererebbero la nostra ingratitudine.  

    Nemmeno si tratta di decidere se sia vera la leggenda nera o quella rosa, come un poco affrettatamente si è detto, sedotti da suggestioni cromatiche, bensì di capire la ragione dei silenzi. Ma non è detto che esistano documenti che rechino la motivazione delle azioni o delle inazioni e, anche laddove la riportassero, non è sicuro che vi si trovi qualcosa di nuovo.  

    Aiutare non era facile e, laddove lo era (pensiamo alla Conferenza d’Evian) non si fece, lasciando morire gli ebrei europei. Forse l’aspetto da scandagliare riguarda la mancata diffusione della notizia del genocidio, ma questo è un aspetto che riguarda, anzitutto, gli stessi alleati. Anche oggi, alla luce dei continui attentati agli ebrei, in Israele e nella Diaspora, si discorre più del singolo caso che non del disegno complessivo, ma qui la Chiesa non ha certo delle responsabilità.

    Vi è, inoltre, un senso di stanchezza nello sguardo retrospettivo, e anche di inutilità: chi è salvo è salvo, chi è morto ammazzato non abbisogna della nostra penna. Nell’ebraismo vi è un culto per la storia (non per la memoria se priva di approfondimento) ma vi è anche l’amore per la vita e la giustificata preoccupazione per l’avvenire.

    Il conflitto mediorientale coinvolge ormai anche la Diaspora, e la violenza morale e materiale subita dagli ebrei nel mondo, anche mediante ripetute intimazioni vergognose, ne costituisce la mesta attestazione. Anche in questo caso, come nel 1938, la Santa Sede si trova dinanzi ad un bivio, perché anche ora corre dei rischi a seconda dell’atteggiamento che decida di assumere. Proprio perché non si riproponga il dilemma di quei tempi, sarebbe da attendersi che la Chiesa si pronunci a favore di una pace vera, cioè, senza illusioni. Tale pace passa attraverso la condanna dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo (già fatte) e dell’antisionismo inteso come negazione del diritto del solo popolo ebraico all’autodeterminazione nella sua sede storica (da fare). Certo che non è facile, ma chi pensa a questo mondo e a quello successivo non si fa intimorire dalle difficoltà. Nel recente passato, Papa Francesco convocò un vertice a Roma per favorire la pace, tentativo al quale si rispose con l’uccisione di tre ragazzi israeliani. Tuttavia, non dimentichiamo la generosità del suo intento, che potrebbe non fermarsi, facendosi  scoraggiare da quella macabra risposta, ma traendone nuova linfa per ulteriori passi, fatti senza illusioni ma, al contempo, ricchi di speranze. Purché si ricordi che la pace necessita della pari dignità delle parti, non potendosi fare se non nel tavolo delle trattative.  

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