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    La pubblicazione del rapporto sui crimini sessuali commessi durante l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, realizzato dalla Association of Rape Crisis Centers in Israel, così dettagliato e ricco di informazioni su ciò che è successo, toglie ogni dubbio sul fatto che si sia trattato di una violenza non solo contro delle ebree, ma contro le donne in quanto donne, colpite nel loro corpo, mortificate e violentate proprio come sesso.

    Già importanti informazioni in questo senso erano arrivate poco dopo la tragedia, dalle notizie che non potevano essere messe in dubbio, fornite come prova di trionfo dai guerriglieri stessi. Una violenza contro le donne praticata con una brutalità e una crudeltà senza precedenti e per di più esibita in modo tale da moltiplicare l’umiliazione delle vittime.

    Nonostante queste atroci notizie, nonostante queste indubitabili certezze, noi femministe occidentali, che siamo quelle che abbiamo combattuto per anni contro gli stupri e i femminicidi, non abbiamo mosso un dito. Nessuna dichiarazione ufficiale da parte di movimenti – citiamo solo Non una di meno – che anche ultimamente si erano distinti nella battaglia, dopo l’efferato femminicidio di Giulia Cecchettin. Non una manifestazione per far sentire al piccolo numero delle donne sopravvissute e ai loro familiari quella solidarietà così necessaria per riprendere in mano la propria vita, come noi femministe sappiamo bene. Eppure eravamo ben consapevoli, per averlo detto tante volte, che in questi casi il silenzio equivale alla complicità.

    Allora come possiamo spiegare la coltre di silenzio che gran parte del femminismo occidentale ha fatto calare su questa strage? Una coltre di silenzio che di fatto ha messo in dubbio elementi fondamentali del pensiero femminista, come l’idea della sorellanza fra tutte le donne da difendersi sempre al di là delle differenze di origine etnica, di ceto sociale, di credo politico.

    Un silenzio che però ha una lunga storia, come scrive in un articolo la femminista americana Phyllis Chesler: sono anni, infatti, che le femministe non denunciano l’oppressione sessuale, pesantissima, che le donne subiscono in quasi tutti i paesi islamici.Perfino le condanne che hanno portato alla morte numerose giovani iraniane non hanno suscitato che un’eco modesta, certo non commisurata alla gravità di ciò che accadeva.

    Il motivo si deve cercare nella cultura woke, che ormai ha contagiato i nuovi femminismi, che tendono ad affratellarsi con i movimenti LGBT senza accorgersi che spesso le loro richieste sono contro le donne.

    La cultura woke ha un unico codice morale: quello di difendere le vittime sì, ma le vittime che vengono di volta in volta designate a seconda delle situazioni, delle parti e delle ideologie in gioco. Oggi, in un momento in cui il nemico indicato è sempre e soltanto il colonialismo bianco, di matrice ebraico-cristiana, le persone di cultura islamica sono considerate sempre le vittime, a prescindere dalle circostanze e dalla verità fattuale. E così la verità dei fatti scompare, continuamente messa in discussione come opera di falsificazione, sicché ogni ricerca della giustizia si dilegua davanti a una confusione da cui si uscirebbe solo con la scelta ideologica. Se infatti la realtà non esiste, se non esiste una “parte giusta”, se le vittime sono solo quelle designate dall’ideologia, è inevitabile arrivare ai silenzi a cui stiamo assistendo.

    Ma difendere queste donne umiliate e torturate è fondamentale per dimostrare che il femminismo esiste ancora, che ha ancora molte cose da dire e molte battaglie da fare. Altrimenti dovremmo ammettere che il femminismo sta implodendo, che stiamo distruggendo decenni di lavoro da cui è nata in quasi tutti i paesi una legislazione sulla violenza sessuale finalmente rispettosa della parola delle donne.

    Come si fa a dare credito a movimenti che hanno lottato perché venisse ascoltata la parola delle donne quando poi essi per primi preferiscono ascoltare la parola di Hamas lo stupratore?

    Nel vergognoso silenzio di noi femministe occidentali acquista un immenso valore la voce di quattro impavide donne musulmane – come ci ha fatto notare la stessa Chesler – che su Newsweek hanno scritto: «Parlare di questi crimini è l’unico modo per stare dalla parte delle vittime».

    Illustrazione di Ludovica Anav

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