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    La cerimonia

    Oggi in Israele si ricorda la Shoà. Molti edifici pubblici sono illuminati di giallo in segno di memoria. Come tutti gli anni, ieri sera c’è stata una cerimonia solenne allo Yad Vashem di Gerusalemme: al centro della cerimonia, alla presenza di tutti i vertici civili e militari dello Stato sei torce sono state accese da persone legate alla resistenza contro i nazisti a ricordo dei sei milioni di ebrei uccisi.  Oggi Israele si ferma al suono delle sirene che si sentono in tutto il Paese. Per due minuti tutti si immobilizzano, in un momento di silenzio, di riflessione e di ricordo. In numerosi luoghi si leggono i nomi degli assassinati.

     

    Non solo il genocidio, anche la resistenza

    Il ricordo della Shoà in Israele è ovviamente molto diverso dalla “giornata della memoria” europea, per contenuto, per emozione, per data e anche per significato. La Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, scelse nel 1951 una data civile, il 27 di Nissan per un momento collettivo di ricordo. La data è stata decisa così per ricordare non una liberazione per mano d’altri e nemmeno l’anniversario di una delle peggiori atrocità commesse dai nazisti, ma il più evidente atto di resistenza della popolazione ebraica in Europa, il primo giorno della rivolta del ghetto di Varsavia. Questa scelta rifiuta, dunque, di sottolineare solamente negli ebrei uccisi dai nazisti la condizione di pure vittime di una violenza subita “come agnelli”, con i connotati religiosi cristianeggianti che ne seguono (l’”olocausto”, cioè il “sacrificio”) ed è perciò nominata Yom Hazikaron laShoah ve-laGevurah, cioè “giorno del ricordo del disastro [cioè il genocidio] e dell’eroismo”. L’ultima clausola è importante. L’“eroismo” è quello di chi seppe ribellarsi e resistere ai nazisti, come i combattenti di Varsavia e di altri ghetti, i resistenti che si dettero alla macchia unendosi ai partigiani, ma anche coloro che si rifiutarono di abbandonare la loro dignità e le pratiche religiose, di accettare la disumanizzazione da parte dei nazisti, di rifugiarsi nel solo ruolo di vittime passive della violenza. Quel che si vuol dire è che nonostante le condizioni terribili e l’impotenza di vecchi, bambini, donne, uomini disarmati e non organizzati, il popolo di Israele trovò i modi di resistere al genocidio e che questo va ricordato.

     

    La data

    Bisogna comprendere come questa data tragga il suo senso anche dalla collocazione in una serie di commemorazioni. Essa viene subito dopo Pesach, il ricordo dell’uscita dalla schiavitù in Egitto, che pure è lontana oltre trentacinque secoli. Le segue la festa dell’indipendenza (Yom HaAtzmaut) che è celebrata nella data ebraica del 5 di Iyar, e dunque circa una settimana dopo la giornata dedicata alla Shoà. Alla vigilia della festa dell’Indipendenza, il 4 di Iyar, c’è un’altra celebrazione molto commovente, chiamata semplicemente Yom Hazikaron, cioè “giorno della memoria”, che è dedicata al ricordo dei caduti nelle guerre sostenute da Israele per difendere la sua esistenza dagli attacchi di chi voleva distruggerlo e insieme a quello delle vittime del terrorismo antisraeliana: tutti coloro che sono stati uccisi dall’odio contro Israele. Vi è dunque venti giorni circa una serie di quattro eventi che riassumono la vicenda del popolo ebraico, come la si può vedere oggi dal punto di vista prospettico del rinato stato di Israele: la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, la persecuzione nazista (e la resistenza ebraica), il duro prezzo di sangue pagato da Israele per la sua vita, l’indipendenza e la libertà. 

     

    Il ricordo religioso

    Altre date ancora sono invece generalmente utilizzate per ricordare il genocidio in ambito religioso.  Il primo è il digiuno del 10 del mese ebraico di Tevet (che cade fra dicembre e gennaio), che ricorda l’inizio di quell’assedio di Gerusalemme da parte dei babilonesi, che avrebbe poi portato alla conquista della città e alla distruzione del primo Santuario. Il Gran Rabbinato d’Israele scelse questa data come “giorno generale del lutto” per consentire ai parenti delle vittime della Shoà, le cui date di morte non sono note, di osservare le tradizionali pratiche per i defunti, e anche per permettere di ricordare anche tutti coloro che sono stati uccisi senza lasciare parenti in grado di ricordarli. In alcune comunità si usa pure aggiungere un “rituale della rimembranza” al seder di Pesach, perché esso ricorda anche il primo tentativo di genocidio del popolo ebraico, quello intrapreso dal Faraone tremila e cinquecento anni fa. 

     

    Il rapporto con Israele

    La scelta di ricordare assieme persecuzione e resistenza è alla base del legame fra memoria della Shoà e difesa di Israele, che è centrale nella coscienza ebraica contemporanea: non certo perché lo stato di Israele sia una compensazione delle sofferenze della Shoà, gentilmente offerta dalla comunità internazionale a spese degli arabi, come pretendono gli antisionisti; ma perché lo stato ebraico costituisce oggi la più importante garanzia di  autodifesa rispetto alla possibilità che le lunga storia delle persecuzioni e dei genocidi degli ebrei si ripeta.  Si può dire dunque che la più importante risposta al genocidio da parte ebraica si ritrova nella “legge del ritorno” promulgata dalla Knesset il 5 luglio 1950, dunque prima ancora della proclamazione di Yom haShoà, in cui si assicura il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana a tutti coloro che secondo le leggi naziste di Norimberga avrebbero dovuto essere in qualche modo perseguitati. Come è scritto anche nella Dichiarazione di Indipendenza, il ricordo allora freschissimo, della Shoà e il bisogno di resistere all’antisemitismo sono fra le ragioni basilari della vita dello stato di Israele. È importante che questa dimensione collettiva non vada dimenticata.

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