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SPECIALE PESACH 5784

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    Perché l’Iran attacca Israele
    Bisogna sempre tenerlo presente: la guerra iniziata il 7 ottobre non è solo il risultato di un bestiale pogrom di massa sul territorio israeliano da parte delle organizzazioni terroristiche e di molti civili di Gaza al loro seguito; è anche una tappa importante della guerra di lunga durata dell’Iran per la distruzione dello stato ebraico. Si tratta di una campagna iniziata subito dopo la rivoluzione islamica, negli anni Settanta e rafforzata poi negli ultimi due decenni. Esso deriva da autentico e sincero odio antisemita, in parte proveniente dalla tradizione islamica, in parte ereditato dall’influenza nazista sul clero sciita, in parte dal rapporto che Arafat riuscì a costruire con Khomeini prima del suo avvento al potere. Durante il regno dello Scià Israele aveva sviluppato i buoni rapporti tradizionali fra ebrei e popolo persiano, anche sulla base di una contrapposizione fra le ambizioni geopolitiche dell’Iran a riprendere l’antica egemonia sul Medio Oriente e gli stati arabi nemici di Israele. Ora che la pacificazione con il mondo sunnita è andata molto avanti, la stessa ambizione egemonica ha mutato di segno e si contrappone a Israele e a chi ha rapporti con lui. La campagna anti-israeliana dell’Iran ha insomma due aspetti: da un lato è autentico odio fanatico per gli ebrei che si sono permessi di ritornare sulla loro terra che era stata conquistata dall’Islam. Dall’altro è il tentativo di utilizzare questo odio condiviso con larghe masse musulmane come pretesto per il progetto imperialista conquistare i paesi vicini ad Israele, costruire un “ponte terrestre” lungo mille chilometri attraverso Iraq, Siria e Libano fra l’Iran e il Mediterraneo e acquisire l’egemonia di tutto il Medio Oriente.

    La battaglia fra le guerre
    Negli ultimi due decenni è questo “ponte” con cui l’Iran alimenta di armi e altri materiali il terrorismo di Hezbollah è diventato dunque un bersaglio necessario dell’autodifesa israeliana, con frequenti bombardamenti delle strade, degli aeroporti, dei depositi e delle fabbriche di armamenti che ne costituiscono le tappe, con lo scopo di evitare il rafforzamento dei gruppi terroristici come Hezbollah. Per tale campagna prolungata il giornalismo israeliano aveva anche inventato un nome suggestivo: battaglia fra le guerre. Essa si è intensificata quando la guerra vera e propria è stata lanciata da Gaza, con l’appoggio dichiarato e determinante dell’Iran; ma finora gli scontri diretti fra i due paesi erano stati evitati. Israele aveva spesso colpito militari iraniani anche importanti su territorio siriano e libanese, ma non il territorio persiano vero e proprio; le risposte erano arrivate dalle marionette (o come si usa dire in inglese: i proxy) degli ayatollah: Siria, Hezbollah, Houti.

    Lo scontro diretto
    Tutto è cambiato quando il 1 aprile 2024, un attacco aereo israeliano contro un edificio adiacente all’ambasciata iraniana di Damasco (in realtà la sede della milizia usata dagli ayatollah per il loro lavoro sporco) ha ucciso otto persone, tra cui il capo dei pasdaran nella regione, generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, responsabile della direzione dei proxy iraniani e dunque complice anche del 7 ottobre, e il suo vice, oltre ad alcuni terroristi cui stava trasmettendo istruzioni. Gli ayatollah hanno ritenuto di dover assolutamente rispondere all’attacco, che era perfettamente legittimo sul piano del diritto internazionale dato che si trattava di militari di uno stato belligerante. ma colpiva anche simbolicamente il loro progetto imperialista. Dopo molte roboanti dichiarazioni hanno lanciato un grande attacco contro il territorio israeliano nella notte fra il 13 e il 14 aprile, usando centinaia di droni e missili balistici e cruise. Israele, con l’aiuto di alcuni paesi amici (Usa, GB, Francia, Giordania, forse l’Arabia) ha abbattuto il 99% delle minacce e non ha subito danni significativi. È stato un trionfo della tecnologia difensiva israeliana e un’umiliante sconfitta per l’armata iraniana. A sua volta lo stato ebraico ha ritenuto di non poter lasciare senza risposta un attacco diretto del genere e usando una frazione molto piccola delle sue forze, ha condotto una missione di bombardamento su una città dell’Iran centrale, Ishafan, che ha danneggiato il sistema di difesa avanzato (di fabbricazione russa) posto a tutela degli impianti nucleari che hanno sede nei pressi. E’ un segnale molto forte, che dice agli ayatollah che Israele è in grado di penetrare con l’aviazione e i missili nel cuore del loro paese e di distruggere anche le istallazioni più difese, in particolare quelle atomiche.

    La strategia israeliana
    Comportandosi in questa maniera Israele è riuscito a conservare la solidarietà di Usa e degli altri alleati, ma ha mostrato anche la propria autonomia, visto che essi avevano chiesto di non reagire. Ha fatto capire infine all’Iran che il rischio di un confronto diretto è tutto dalla sua parte. Certo, sarebbe stato preferibile distruggere il programma nucleare e le forze missilistiche iraniane; ma nel quadro dei rapporti di forza presenti Israele non poteva correre il rischio di un ulteriore isolamento internazionale. Anche se i media e i politici amano accusare il governo israeliano di bellicismo ed estremismo, Netanyahu ha dimostrato anche in questa circostanza una capacità lucidissima di comprendere i limiti e le possibilità di un paese piccolo e avanzato come Israele, che lotta per la sua sopravvivenza. Ora sia Israele che l’Iran hanno dichiarato chiuso questo episodio, ma non certo la guerra. Altre sorprese sono possibili. In particolare poi, prima di raggiungere una conclusione della guerra l’esercito israeliano deve chiudere la partita con Hamas prendendo Rafah, distruggendo le sue forze militari restanti, catturando i suoi capi e liberando gli ostaggi; e deve anche riuscire ad allontanare se non distruggere il pericolo di Hezbollah dai confini settentrionali. Tutte cose che l’Iran non vuole assolutamente. Sono compiti lunghi e difficili, sia sul piano militare che su quello politico-diplomatico. Purtroppo bisogna pensare che la pace è lontana.

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