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    La ricorrenza del 16 ottobre, come del resto quella del 27 gennaio, rappresenta un appuntamento al quale le istituzioni ebraiche non possono mancare, ma il dovere morale di ricordare, organizzando specifiche celebrazioni, non si disgiunge dalla necessità di individuare temi o prospettive sempre nuove che cerchino di porre le iniziative al riparo dalla ripetitività.

    Il rischio, infatti, di cerimonie che si reiterino senza particolari novità, seguendo cliché collaudati, incombe ogni anno. 

    Eppure il dovere della memoria è da sempre incarnato nell’etica e nel pensiero ebraico. La necessità di ricordare i nostri lutti, il nome di chi è scomparso, come unico atto possibile per rendere di nuovo idealmente in vita chi non c’è più, rappresenta qualcosa di ineluttabile nella stessa identità ebraica. L’ebraismo si fonda su un particolare rapporto con il tempo, basandosi sul legame più profondo con la storia e con il passato, pur essendo costantemente proiettati al futuro. Ricordiamo, ad esempio, la distruzione del Tempio, pur avvenuta millenni prima, il 9 di Av di ogni anno con un digiuno, come fosse un evento appartenente all’attualità, mentre non dimentichiamo di riproporci che l’anno prossimo saremo a Gerusalemme. 

    Dunque? Dunque celebrare le date infauste della nostra storia fa parte del DNA ebraico, per questo la rievocazione, anno dopo anno, del 16 ottobre, come del 27 gennaio, resta connaturata al modo ebraico di essere, mettendo così, noi ebrei per primi di fronte al dovere di celebrare e di rievocare. 

    Se non fosse per una considerazione che parrebbe mettere in discussione tale ovvietà e cioè che queste celebrazioni dovrebbero piuttosto rappresentare una necessità etica e politica, non degli ebrei, ma di tutti gli altri, in linea con quanto già affermava Elena Loewenthal, nel suo “Contro il giorno della memoria” (2014).

    La celebrazione della ricorrenza di un evento storico, perché non si riduca ad una sterile ritualità, non può prescindere dal processo psicologico basato sull’elaborazione dei suoi significati più profondi e che consiste nell’effettivo riconoscimento del senso, del ruolo e delle funzioni incarnate nell’evento stesso. In termini più diretti affermerei che la responsabilità di ogni celebrazione relativa alla data del 16 ottobre dovrebbe essere assunta non dagli ebrei, ma da tutti gli altri, da coloro cioè che possono riconoscersi nei discendenti degli artefici del tragico rastrellamento, di chi ne è stato collaboratore o testimone, attivo partecipe od inerte.

    Qualunque evento posto a rievocare la persecuzione nazifascista dovrebbe pertanto rappresentare una preziosa occasione per riflettere sulle responsabilità che il mondo ha avuto nei confronti delle vittime. Una riflessione che avrebbe lo scopo di permettere un’effettiva liberazione dal peso delle colpe che si tramandano consciamente o inconsciamente da una generazione all’altra. 

    La ricerca psicoanalitica insegna che i fatti psichici, le esperienze, i vissuti, specie se non pienamente esplicitati o ancor più se coperti da segreti, si trasmettono alle generazioni successive, comportando effetti anche di rilievo psicopatologico (Kaes et al., 1995; Caviglia e Bove, 2016; Sonnino, 2022). In merito alla persecuzione antiebraica, come è noto, grazie anche alle amnistie volute nel dopoguerra in Europa, un processo elaborativo basato sul riconoscimento delle responsabilità, non si è ancora concluso. Ciò significa che i discendenti degli stessi carnefici, dei collaboratori o dei testimoni silenziosi, sono ancora oggi portatori di un carico psicologico di cui forse non sono consapevoli, ma di cui subiscono gli effetti.

    Per questo sarebbe idealmente auspicabile che ad ogni celebrazione per queste tristi date, al posto di una corona, possa essere pronunciato il nome di un aguzzino dal quale i discendenti ne abbiano preso fattivamente le distanze e rimasto fino a quel momento sotto silenzio, per poter finalmente permettere un processo di effettiva riconciliazione basato sul riconoscimento di quanto accaduto e per mano di chi.

    Una prospettiva che non vuole ingenerare alcuna caccia alle streghe, ma che si baserebbe sull’effettiva individuazione delle responsabilità così da trasformare una colpa, che rischia di permanere persecutoria, in una colpa depressiva, idonea finalmente ad una liberazione basata sulla riparazione (Grinberg, 1971).

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