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    Elio Tesciuba è amministratore e, insieme a Ruggero Raccah, fondatore di “Atid”, acronimo per “Advanced Technology Innovation Distribution”, ma anche “futuro” in ebraico. Questa realtà è nata quasi vent’anni fa con l’obiettivo di aiutare le start-up israeliane del biomedicale a sviluppare i loro progetti e a fare ricerca clinica in Italia attraverso un’attività di mediazione e coordinamento nei rapporti scientifici, tecnologici e commerciali. Processi molto lunghi, ma che hanno già portato a risultati soddisfacenti.

    Come si svolge la vostra attività?

    Ci rechiamo presso fiere e incubatori israeliani alla scoperta di nuove tecnologie. Per le realtà più interessanti costruiamo progetti di ricerca clinica con l’Italia. Negli anni sono emersi tante idee, ma, vista la fragilità delle start-up nelle loro prime fasi di vita, anche inevitabili fallimenti. I dispositivi medici sono più fortunati perché tendenzialmente prima della registrazione di un brevetto c’è una grande mole di studio. Questo implica però anche tempi molto lunghi.

    Come avviene l’interazione tra la ricerca italiana e il sistema delle start-up israeliano?

    Ci siamo resi conto che il ricercatore italiano, con il suo lungo percorso di studi, ha una profonda preparazione nella ricerca. In Italia manca però lo sviluppo della stessa, per l’assenza di un ecosistema che stimoli la crescita di queste innovazioni, tanta burocrazia, pochi investimenti. Israele, invece, come noto, è la “Start-up Nation”: nascono ogni giorno piccole aziende grazie alla creatività delle persone, all’organizzazione del Paese e alle leggi; manca però il metodo di ricerca italiano.

    Di quali progetti vi occupate?

    Non siamo nel ramo farmaceutico, ma ci occupiamo di dispositivi medici, ossia attrezzature e semplici farmaci da banco, che non richiedono lunghe e complesse sperimentazioni cliniche. Aiutiamo le aziende israeliane ad accreditarsi, a fare ricerca clinica e a posizionarsi sul mercato. Abbiamo curato dispositivi molto complessi, come l’esoscheletro per far camminare i paraplegici “rewalk”: il primo centro fuori da Israele è stato il Villa Beretta di Lecco. Oggi questa start-up è diventata una multinazionale, ma ha richiesto 15 anni di lavoro.

    Oltre alla neuroriabilitazione, in quali altre discipline siete attivi?

    Lavoriamo molto, ad esempio, sulla parte psichiatrica. Un progetto riguarda la stimolazione magnetica transcranica profonda, ossia la rimodulazione della plasticità del cervello: mandiamo campi magnetici mirati a 3 cm dalla corteccia cerebrale per stimolare alcune precise aree del cervello colpite da patologie come depressione, disturbo bipolare, disturbo ossessivo compulsivo, dipendenze. Al San Raffaele di Milano stiamo portando avanti anche dei protocolli clinici su sclerosi multipla, Parkinson, Alzheimer, dolore neuropatico. Abbiamo fatto anche studi sull’obesità.

    Tra i progetti in lavorazione vi è anche l’impiego dei droni in sanità: di cosa si tratta?

    Il drone nasce come un prodotto per aiutare gli altri, non è legato all’ambito militare. Pesa 25 chili, ha tre ore di autonomia, può arrivare fino a 250 chilometri all’ora. Serve per il trasporto di materiali, sangue e organi quando non siano praticabili altri sistemi di soccorso. Bisogna capire quando sia veramente necessario e quando si possa ricorrere a sistemi tradizionali. Alcune zone del mondo hanno una carenza di infrastrutture tale che un drone non solo può garantire il risparmio di tempo, ma può rappresentare anche l’unico mezzo per raggiungere aree impervie. Tuttavia, manca ancora un completo sviluppo della tecnologia e una serie di autorizzazioni.

    Quali sono le prossime innovazioni a cui state lavorando?

    Insieme allo Sheba Medical Center di Tel Aviv stiamo lavorando a un sensore che con la spettrometria possa diagnosticare l’esito di un test antigenico per il Covid in pochi secondi. La prospettiva è di allargare questa diagnosi rapida ed accurata anche ad altre infezioni virali e batteriche. Un altro progetto in cui siamo impegnati è con l’università di Tel Aviv e riguarda la brachiterapia, che rientra nell’ambito della radioterapia oncologica: si tratta di aghetti che emanano un certo tipo di radiazioni terapeutiche che si installano in endoscopia o con la chirurgia. La massa tumorale si riduce in 23-26 giorni grazie alla rottura della catena del DNA necessaria per la replicazione neoplastica. Il primo centro fuori da Israele dove si sta portando avanti il progetto è in Italia, l’Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori “Dino Amadori” a Meldola. Complessivamente abbiamo in ballo circa 60 progetti di ricerca in tutto il mondo, di cui molti hanno proprio l’Italia al centro.


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