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    «La mia emozione fu incredibile: per la prima volta un soldato di Israele, potevo toccare qualcosa di reale di Israele». La testimonianza di Emanuele Pacifici, nel 1944 tredicenne, è narrata nel libro “Non ti voltare. Autobiografia di un ebreo”: si tratta di uno dei numerosi racconti entusiasti e genuini degli ebrei italiani di fronte ai soldati della Brigata Ebraica.

    Le prime truppe erano state organizzate nel dicembre 1939 in Palestina, allora sotto mandato britannico: erano le Jewish Units, viste con ostilità dal governo di Londra, che le integrò nell’esercito solo dal 1942, prima di vincere ogni resistenza il 29 agosto 1944, quando Churchill annunciò alla Camera dei Comuni la costituzione della Brigata Ebraica combattente, simboleggiata da una bandiera bianca e azzurra con la stella di David.

    Queste unità svolsero un ruolo importante nella liberazione italiana. Contribuirono a respingere i tedeschi nei pressi del fiume Senio, in Romagna, e combatterono in tutta l’Italia settentrionale. Nei territori liberati, aiutarono profughi e sfollati, crearono centri di raccolta e di istruzione, portarono alla popolazione aiuti, acqua e cibo, si impegnarono nella ricostruzione di strade, case, ponti. Una serie di attività avviate dalle Jewish Units sin dallo sbarco in Sicilia dell’estate ’43. Per gli ebrei italiani, i soldati della Brigata Ebraica erano motivo di orgoglio e di riscatto, oltre che un punto di ripartenza essenziale dopo anni di discriminazioni, persecuzioni, deportazioni, eccidi. Questi militari, a Roma come altrove, riaprirono le scuole e la Sinagoga, inaugurarono circoli giovanili, insegnarono la lingua ebraica ai bambini, si presero cura di chi era rimasto solo. La storia di Emanuele Pacifici è emblematica: rifugiato a Firenze, notò che il soldato addetto all’autobotte aveva la scritta “Palestine” sulla spallina, mentre sugli sportelli dell’automezzo c’erano due grandi Maghen David gialli. Temendo che fosse un tedesco travestito, lo mise alla prova e recitò lo Shemà in modo da farsi sentire. Il soldato, Eliau Lubinski, gli fece posare i secchi dell’acqua, lo abbracciò e lo riempì di baci, per poi accompagnarlo insieme al fratello Raffaele a Roma dai parenti paterni, promettendo loro che se non li avessero ritrovati li avrebbe portati con sé nel suo kibbutz di Beth Alfa e li avrebbe adottati.

    Le emozioni degli ebrei italiani alla vista della stella di David tra gli Alleati sono una costante. Nel libro “Una storia nel secolo breve. L’orfanotrofio israelitico italiano Giuseppe e Violante Pitigliani” le gemelle Marina e Mirella Limentani raccontano che all’indomani della liberazione di Roma il 4 giugno 1944, andando in giro per la città, «la cosa più bella» per la quale si sono fatte dei «pianti disperati» fu quando erano andate «a piazza Colonna per fare una passeggiata» e nei pressi di piazza Poli si imbatterono in «un palazzo con un gran balcone tondo» dove «svettava la bandiera israeliana!» (ossia quella delle Plugoth).

    La presenza di queste truppe fu «la più piacevole e commovente sorpresa» che accolse gli ebrei romani, come scrive Giorgio Piperno nell’articolo “I soldati di Erez Israel e la riapertura della scuola di Roma” nella Rassegna Mensile di Israel 1970. «Non vi fu campo della vita comunitaria al quale non partecipassero attivamente quei soldati. Erano spontanei, pieni di dedizione, entusiasti, così diversi dall’impaurito e complesso ebreo della Diaspora. Erano sì preoccupati e commossi per gli eventi del recente passato, ma senza soffermarsi sul presente, rivolgevano il loro sguardo e la loro attività verso l’avvenire, che sapevano difficile ma di cui sentivano di essere gli unici veri protagonisti».

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