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    C’è una lezione che gli viene dalla storia, soprattutto da quella di suo padre. La racconta Paolo Del Debbio, giornalista e conduttore televisivo, nel suo libro “Le 10 cose che ho imparato nella vita” (Piemme). Un autoritratto che ripercorre vicende famigliari, personali e professionali, con alcuni capitoli dedicati al padre, Velio, che fu fatto prigioniero dai nazisti dopo l’8 settembre del ’43 e che fu deportato in un campo di concentramento in Germania. In quel campo passarono anche molti ebrei, prima di essere assassinati. Del Debbio non aveva mai parlato di questa vicenda prima di scriverla nelle pagine del suo libro. Shalom lo ha intervistato.

     

    Del Debbio, qual è la lezione più importante che le hanno insegnato i suoi genitori?

     

    Certamente è quella che potrei definire con uno slogan, come del resto ho fatto nel libro “La felicità con poco”. Erano due persone, il mio babbo e la mia mamma, che avevano passato la guerra, la fame, il disorientamento e tanta tanta paura. Non sempre, ma per loro sì, la vita che potevano godersi gustando la libertà, avendo il necessario per mettere insieme il pranzo con la cena e un tetto sotto il quale vivere senza la continua paura dei bombardamenti, sembrava loro qualcosa che non avendo avuto nulla per molti anni, in realtà, era moltissimo. E comunque sufficiente per essere felici. Questi sono insegnamenti che non ti vengono trasmessi principalmente con le parole ma che fai tuoi per un processo quasi di osmosi e naturalmente si trasferiscono nel tuo cuore e nella tua mente. Notare bene: non si tratta di accontentarsi del poco, ma di essere felici con poco, che è cosa radicalmente diversa.

     

    Suo padre fu internato in un campo di concentramento, in cui incontrò gli ebrei di passaggio prima che fossero assassinati. Suo padre, ci racconta lei nel libro, si prodigò per riconsegnare a queste persone, seppur per brevi attimi prima della morte, quell’umanità di cui erano stati privati. Può raccontarci come?

     

    Gli ebrei che arrivavano nel campo di concentramento di Luckenwalde, in realtà, nel loro caso si trattava solo di un campo di smistamento perché li attendevano i campi di sterminio: camere a gas e forni crematori. Gli aguzzini nazisti con gli ebrei erano, semmai possibile, ancora più violenti brutali e inumani. Appena arrivavano gli venivano tolti gli occhiali – tradizionalmente rotondi – che portavano e le lenti venivano schiacciate sotto gli scarponi di coloro che erano i guardiani della ferocia nazista. Per loro si aggiungeva tragedia a tragedia in quanto, da quel momento, per molti di loro terminava la possibilità di leggere in generale, ma in particolare i testi sacri, ed anche di compiere azioni quotidiane come quella di farsi la barba. Il mio babbo, insieme al suo compagno di prigionia Alfio Bonturi, non sopportava questo ulteriore oltraggio che impediva loro financo la cura del proprio corpo, per questo decisero che ogni mattina, per quanto potevano – e alzandosi un po’ prima del previsto – avrebbero fatto la barba agli ebrei che non avevano più gli occhiali. Per loro era semplicemente un dovere, lo sentivano così. Era un modo di ridare un pezzettino di dignità a quelle persone alle quali era stata calpestata. Per questo Velio e Alfio vennero ripetutamente bastonati e picchiati in modo brutale e per punire i loro gesti di umanità furono più volte, d’inverno, pioggia o neve, un freddo indescrivibile, lasciati in piedi, per tutta la notte, coperti solo dalla divisa a righe, a scontare la pena di essere stati umani.  

     

    Come le descriveva questi incontri e queste scintille di umanità nell’inferno?

     

    Me li descriveva come boccate d’aria, come raggi di sole che fendevano la nebbia della disumanità. Infatti, la ferocia nazista non riuscì, in molti casi, a spegnere quella fiammella di umanità e dignità che, secondo le parole del mio babbo, era Dio stesso ad averla posta in noi. Momenti di solidarietà tra deportati erano tracce di umanità e quindi portatrici di quel calore che l’umanità emana da se stessa anche senza l’ausilio delle parole. L’umanità, infatti, è una specie di aura che circonda la persona umana e che in modo misterioso avvolge la persona o le persone che ti circondano. Non è importante come ciò avvenga, ma la testimonianza di mio babbo Velio ha radicato in me la convinzione che ciò avviene.

     

    Qual è la memoria che le trasferì suo padre su questa vicenda e che la colpì di più?

     

    Che ti possono togliere tutto ma non la dignità che Dio ha posto nel tuo cuore e, quindi, che si deve affrontare la vita con questa coscienza e tenendo conto che questo è l’orizzonte entro il quale collocarla. Devo dire, con tutta onestà, che non so se nella mia vita sono riuscito a vivere secondo questo insegnamento e soprattutto a quell’altezza di Velio e Alfio. Però ne ho fatto tesoro e almeno ci ho provato e continuo a provarci. Dei risultati non posso io stesso erigermi a giudice.

     

    Lei scrive che anche dagli ebrei di cui ha raccolto la memoria da suo padre, ha imparato molto. Cosa?

     

    Nella mia famiglia, per merito esplicito di mio padre, c’è stato sempre un grande rispetto per gli ebrei. Il mio babbo diceva tre cose a proposito degli ebrei che per lui li caratterizzavano: una profonda pietà religiosa, una grande compostezza, una grande dignità. Allora appresi tutto questo e poi, negli anni, studiando l’antico testamento della storia di Israele e poi dell’antisemitismo, ho capito che mio padre aveva colto nel segno e per me, come ebbe a dire Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma, “Gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori”.

     

    Oggi assistiamo a nuove derive di antisemitismo e di negazionismo. Lei che come crede si possano combattere? Qual è l’antidoto a questi mali della società?

     

    L’antidoto a questi mali è la lotta contro l’ignoranza. Quello che l’uomo ha fatto una volta può farlo una seconda. Questa convinzione non è frutto di un pessimismo antropologico, ma è frutto di un realismo storico-esistenziale perché, come diceva Pascal, sull’angelo che è in noi può prevalere il diavolo che, parimenti, alberga in noi, come fu per la Shoah. Da poco si è celebrato il Giorno della Memoria. Questo bisogna fare: parlarne, parlarne, parlarne perché tutt’oggi c’è chi pensa convintamente che al popolo ebraico vada negata la possibilità di esistere e di comparire sulle carte geografiche. Per questo frutto di ignoranza mista a disumanità non c’è altra arma che la diffusione della conoscenza che può avere un influsso diretto e forte sulla coscienza. Conoscenza e coscienza vanno di pari passo e non si ha l’una senza l’altra.

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