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    Isaac Bashevis Singer rappresenta ancora oggi una delle voci più significative della narrativa moderna, uno dei più grandi romanzieri del 900, personaggio complesso, affascinante, difficile da decodificare. Grande cantore delle passioni umane, resta uno “smarrito” per vocazione. A trent’anni dalla morte di Singer, Fiona Shelly Diwan, giornalista, saggista e direttrice dei media della Comunità Ebraica di Milano, esplora attraverso il suo libro “Un inafferrabile momento di felicità” (Guerini. E Associati), la scrittura, le opere e la complessità del grande cantore del mondo yiddish, offrendo nuovi spunti di riflessione e dipingendo un affresco incredibilmente contemporaneo di questo scrittore. Un lavoro monumentale che nasce soprattutto in seguito alla riscoperta e pubblicazione di due testi di Singer ovvero: “Il Ciarlatano” e “Keyla la rossa” pubblicati recentemente da Adelphi e usciti in yiddish a New York, per la prima volta negli anni Sessanta e Settanta. Fiona Shelly Diwan ha raccontato a Shalom le riflessioni maturate intorno all’opera di questo interessante scrittore, un “autore che merita di essere riscoperto oggi più che mai”.

     

    Perché ha scelto di raccontare uno scrittore come Singer, legato al mondo Yiddish e a un’America post-guerra?

    Come per molti della mia generazione, quella nata negli anni Sessanta, anche per me Singer è stato un “grande amore” di gioventù, capace di regalare letture appassionate insieme a nuovi scorci e prospettive alla modernità ebraica e al modo di vivere l’ebraismo. Lo conobbi personalmente, a New York, un incontro fuggevole a una conferenza, ero seduta nelle ultime file, nel 1978; leggendolo, me ne sono innamorata. Il primo libro è stato Lo Schiavo, uno tra i suoi romanzi più intensi. Tornare oggi a parlarne significa riconnettermi con qualcosa di profondo, che appartiene al mio passato, che ha una dimensione intima, personale. All’epoca, mi aveva colpito soprattutto la capacità che Singer aveva di intercettare la modernità ebraica, i suoi interrogativi, la dialettica tra senso di appartenenza e rapporto col mondo, il peculiare con l’universale; ancora oggi, a distanza di quasi 40 anni, mi colpiscono la sua attualità, la sua capacità di tenere insieme le angosciose contraddizioni esistenziali che abitano gli esseri umani; la sua narrativa si dispiega esattamente dentro questo “campo di tensione”, quello della battaglia tra Bene e Male che eternamente si contende l’animo umano, il corpo a corpo tra Yetzer haRà e Yetzer haTov. La sua capacità di raccontare questo “campo di tensione” tenendo insieme tutto è prodigiosa, direi unica. I suoi temi sono ancora i nostri e sono eterni: l’etica della protesta, ad esempio, questo alzare il pugno come Giobbe e invocare il Cielo, Dio che cerca l’uomo, l’uomo che cerca Dio, e nessuno che arriva puntuale all’appuntamento. Una tensione etica che va di pari passo con la desolante consapevolezza dell’inemendabile ferocia del mondo. E ancora: il rapporto tra creatività e spirito ribelle; il narcisismo, una “patologia” drammaticamente contemporanea. Non dimentichiamoci che Bashevis Singer, oltre a essere stato un grande ribelle, è anche stato accusato di essere un womanizer, un grande seduttore-dongiovanni e pertanto un inguaribile narcisista. Non credo sia casuale che Singer sia stato così amato dalla generazione degli anni Sessanta-Settanta: pur essendo un conservatore era profondamente dissacrante, eversivo, trasgressivo. Ma un altro importante motivo per il quale ho deciso di ritornare su Bashevis Singer è stato lo spirito di curiosità verso le due nuove uscite di suoi inediti, romanzi ancora non indagati criticamente, “Il Ciarlatano” e   Keyla la rossa”. Adelphi ha fatto bella operazione di repêchage decidendo di pubblicare questi due testi. E Singer è un autore che merita assolutamente di essere riscoperto. 

     

    Quali sono i temi presenti nel suo saggio?

    Nei “grandi romanzi americani” di Bashevis Singer i temi ricorrenti sono quelli dello sdradicamento, della sopravvivenza, dell’esilio. Per questi eroi rotolati a New York e che hanno perso tutto nella Shoah non resta che la vitalità di uno humour amaro e di un erotismo disperato, eros come unico conforto al dolore di vivere. I suoi protagonisti sono anime nude, fantasmi che vagano tra cielo e terra, anime salve di un mondo scomparso, sradicati, ciascuno con le proprie ossessioni, ferite, pulsioni redentive. Uomini e donne che una depressività latente consegna a volte a pulsioni suicidarie. Eros e thanatos, amore e morte, che l’esperienza della Shoah e la fine del mondo della yiddishkheit riunisce in un abbraccio indissolubile. La bulimia erotica dei protagonisti maschili di Singer è inoltre un tema molto contemporaneo. Eros e sopravvivenza di « anime nude », come scrive Singer, nude perché il mondo da cui sono nate è stato cancellato, spogliato, annientato e non esisterà più. Anime rotolate a New York come quei relitti che l’oceano abbandona sulla battigia, salvati dalla furia dei flutti. Singer arriva a New York nel 1935, prima della Shoah, ma per ben otto anni dirà di se stesso di sentirsi « a big nobody », un grande nessuno, deprivato, nudo, senza più orientamento. E cadrà in una cupa depressione. 

     

    Nel volume si parla di senso di « smarrimento» : ritiene, mutatis mutandis, che questo sentimento appartenga ancor oggi agli ebrei diasporici?

    Diciamo che il tema dello «smarrimento » emerge solitamente nel momento in cui si verificano traumi tali da sconvolgere la vita di un singolo o di una collettività in modo irreversibile, corto circuiti della Storia, guerre, carestie, epidemie, episodi violenti ma anche lutti, abbandoni, perdita dei consueti punti di riferimento. Fortunatamente la storia ebraica non è stata solo una sequela di sventure nè va letta come una historia lacrimosa ; ci sono stati periodi di tranquillità e benessere, spesso anche di opulenza e grandissima fioritura. Diciamo che oggi, dopo lunghi anni, con i segnali di un inquietante e nuovo antisemitismo, si inizia a avvertire sia a livello collettivo sia individuale un certo sentimento di disagio, di smarrimento. Da un punto di vista letterario, quello dello smarrimento è un paradigma comune a molti scrittori, ed è tipico della condizione ebraica del XX secolo. A maggior ragione per uno scrittore ebreo diasporico e per Singer stesso, polacco, ebreo, americano, sempre “fuori fuoco”, sempre “fuori luogo” e in un Altrove straniante. Una condizione che a volte si rivela un sofferto privilegio, in grado di regalare una sensibilità più acuta, diversa: perché quando non ti trovi dove sono tutti gli altri, vedi cose che gli altri non notano. Sviluppi un occhio diverso, sei più ricettivo, critico, “acuminato”. 

     

    La pandemia sembra aver portato a una sorta di  «riscoperta» del piacere della lettura. Le storie di Singer, secondo lei, possono oggi ancora attrarre e interessare le nuove generazioni?

    Penso che Singer oggi sia assolutamente in grado di intercettare la sensibilità dei giovani. Sa raccontare le passioni umane in un modo unico, universale, coinvolgendo ogni generazione. Alcuni romanzi di Bashevis hanno la forza che appartiene ai grandi classici della letteratura. Il suo stile è rapido, fulmineo, bastano poche pagine e il lettore è gia immerso fino al collo nella storia. Singer ha molto da dire ai giovani. Non è mai noioso, i suoi temi sono attualissimi: il vegetarianesimo, la sopraffazione del più debole, il rapporto padri-figli di fronte alla modernità incalzante, la dialettica col mondo non ebraico, l’assimilazione, il silenzio di Dio di fronte ai mali dell’universo, la ricerca di una dimensione spirituale ebraica che abbracci anche le contraddizioni di ciascuno di noi, i demoni che ci attanagliano e che non ci danno tregua, il libero arbitrio, il desiderio, le pulsioni irrazionali che ci governano nostro malgrado… Non sono forse questi dei temi immortali?

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