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    Matti Friedman è un giornalista importante. Ebreo canadese, immigrato in Israele negli anni Novanta, ha scritto per il New York Times, per l’Associated Press da Israele, ma anche dal Libano, dall’Egitto, da Mosca. È anche uno scrittore, che applica i metodi del giornalismo a episodi significativi e poco noti della storia contemporanea di Israele. Il suo primo libro, The Aleppo Codex del 2014, raccontava come un thriller la storia complicata dell’arrivo in Israele del più antico codice della Bibbia ebraica, quello che per secoli era rimasto custodito nella Sinagoga di Aleppo, su cui probabilmente aveva studiato Maimonide, e che ora sta al “Santuario del Libro” al Museo ebraico di Gerusalemme. La casa editrice Giuntina ha appena pubblicato la traduzione italiana di un altro suo bel libro del 2019, Spie di nessun paese, che racconta le imprese di quattro giovani ebrei provenienti dai paesi arabi, che fra il 1948 e il 1949 furono fatti infiltrare in Libano per dare ai dirigenti ebraici informazioni vitali sulle mosse dei nemici che cercavano di soffocare sul nascere lo Stato di Israele. Fu forse la prima grande missione spionistica israeliana, l’inizio di una storia importante. I loro nomi: Yitzhak Shoshan, Yakuba Cohen, Havakuk Cohen e Gamliel Cohen: quattro ragazzi, che durante l’ultimo periodo del mandato britannico di Palestina, prima che nasca Israele, arrivano più o meno clandestinamente a Haifa, allora divisa dalla guerra. Provengono dalla Siria, dallo Yemen, uno da Gerusalemme, si sono arruolati nel Palmach, la forza militare clandestina di élite dell’insediamento ebraico. Poi sono stati coinvolti in un gruppo ancora più segreto, l’”Alba” o “sezione orientale”. Vengono mandati in missione a Beirut, dove si infiltrano avventurosamente e restano per parecchi mesi sotto falsa identità.  Con l’autore parliamo della loro avventura.

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    Matti Friedman, il suo libro sembra una spy-story, si legge come un romanzo. Quanto in esso è storia e quanto è inventato?

    “È tutto vero. Non ho inventato niente. Ho usato i metodi del giornalismo investigativo, parlando con i testimoni, facendo una lunghissima intervista a uno dei protagonisti, Yitzhak Shoshan, che ho trovato ancora vivo e molto lucido, benché molto anziano. Ho cercato i documenti negli archivi. Ho ispezionato i posti. Anche i dialoghi e i pensieri dei protagonisti sono quelli che mi sono stati riferiti.”

     

    Quattro ragazzi che diventano spie per uno stato che non c’è ancora. Perché lo fanno?

    “Sono ragazzi poveri, che sfuggono a un destino di miseria e di oppressione. Erano nati al livello più basso della scala sociale di paesi arabi. Erano ebrei ed ebrei poveri. Vogliono il riscatto, la libertà. Sanno di quello che è successo in Europa, vogliono combattere per sfuggire al genocidio, anche per aiutare anche gli ebrei europei a salvarsi. Sono generosi, credono nel futuro, sentono l’impegno a partecipare. Capiscono di vivere un’occasione storica, vedono che per la prima volta da tempi immemorabili uno stato ebraico è possibile. Cercano la dignità.”

     

    E come fanno a realizzare la loro missione?

    Sono coraggiosi e forti, non hanno paura del pericolo. Cioè sì, hanno paura, quando sono soli in mezzo ai nemici, a un soffio dalla morte e basterebbe una parola sbagliata, un gesto, uno sguardo a perderli. Ma sanno vincersi, tengono i nervi a posto. Fin dall’inizio della loro missione, a Haifa, incontrano gente che li sospetta, che vuol vedere se parlano ebraico, se sanno fare i gesti della preghiera musulmana, dato che dicono di essere arabi in fuga. Per mesi tengono un chioschetto nel centro di Beirut, da cui osservano e riferiscono, ma sono anche visibili a tutti. Hanno rapporti con tanta gente, attirano l’attenzione, devono parlare con molti per ottenere informazioni, ma non attirare l’attenzione. Soprattutto devono evitare che qualcuno verifichi le loro storie, che sono esili. E’ un rischio costante. All’inizio non hanno niente, né armi né strumenti di comunicazione. Poi installano una radiotrasmittente, che però è un pericolo, se venisse vista per caso li tradirebbe.”

     

    Sono ebrei orientali, quelli che in Israele si chiamano “mizrachi”. Spesso si considera che all’inizio siano stati discriminati dalla società israeliana.

    “Sì, c’era discriminazione. Anche nel loro gruppo. Loro e gli altri agenti dell’”Alba” erano ebrei proveniente dai paesi arabi, perché conoscevano lingua e cultura araba. I loro capi però erano askenaziti e loro nella “storia ufficiale”, come la chiamo io, hanno avuto poco spazio. C’è stata discriminazione allora e anche dopo, bisogna ammetterlo.”

     

    I suoi interlocutori, in particolare Yitzhack Shoshan che è stata la sua fonte, si lamentano di questa condizione?

    “No. Non ho trovato amarezza o rancore, tutt’altro. Certo, non hanno avuto statue o riconoscimenti solenni, ma non se lo aspettavano. Era un momento in cui ciascuno faceva quel che poteva per la salvezza collettiva. Shoshan mi è sembrato un uomo fiero del suo contributo, contento di come sono andate le cose, soddisfatto dei risultati dello stato di Israele.”

     

    È un aspetto di Israele di cui si parla poco.

    “All’estero, soprattutto in America, questa presenza ebraica orientale non è capita a sufficienza, si parla genericamente di sefarditi, ma la Spagna, cioè in ebraico Sefarad, da cui deriva il nome sefardita, non c’entra nulla con l’ebraismo siriano, libanese, iracheno o persiano. Ma la società israeliana si è parecchio rimescolata e oggi l’influenza mizrachi è evidente nell’identità di Israele: nella musica, nella cucina, ma non solo lì. L’integrazione c’è.”

     

    Torniamo alla nostra vicenda. Da queste esperienze che lei racconta nasce il mitico Mossad.

    “Si, a un certo punto “Alba” viene chiusa, anche i miei personaggi passano altrove, e l’apparato informativo di Israele viene ricostruito con criteri più professionali e missioni più ampie. E di qui nasce il Mossad e le altre agenzie di informazione di Israele.”

     

    …che hanno grandissimi successi e grandissime storie. In questi giorni si è ricordata di nuovo la figura di Eli Cohen, che riuscì a infiltrare i livelli più alti della difesa siriana.                                                 

    “Sì, anche Cohen era un uomo simile per origine e atteggiamento ai miei eroi. Era ebreo egiziano, nato ad Alessandria, ma la sua famiglia veniva da Aleppo, come quella di Shoshan. Ma erano passati quasi quindici anni e lui aveva un appoggio, una copertura, degli strumenti che nel ‘48-49 non c’erano affatto. Era anche di un altro livello sociale, aveva una preparazione universitaria. Rischiava però allo stesso modo e purtroppo fu catturato Diciamo che quel Mossad per cui lavorava lui era qualcosa come un’”Alba” 2.0.”

     

    E oggi? I servizi segreti israeliani compiono ormai missioni diplomatiche, il direttore del Mossad va a parlare con capi di stato e di governo, come un super-diplomatico.

    “I servizi svolgono lavori politici riservati ma anche azioni segrete vere e proprie. È sempre stato così. Anche sul piano spionistico il Mossad ha avuto ancora di recente grandissimi successi. Pensi all’Iran. Ma siamo in un altro mondo rispetto a quello della mia storia.” 

     

    Che reazioni ha avuto il suo libro?

    “In Israele mi hanno scritto in tanti, molti mi hanno detto: ma lei non ha parlato di mio padre, o di mio nonno, che ha una storia bellissima, e e l’hanno raccontata… Insomma c’è stata una bella partecipazione, molta fierezza. Negli Stati Uniti molti, anche ebrei, non sapevano nulla non solo di queste imprese, ma anche dei mizrachim in generale. Aspetto ora di vedere che cosa direte in Italia, dove il mondo mizrachi lo conoscete. Mi farebbe molto piacere venire da voi a presentare il libro, quando si potrà.”

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