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    L’ottavo giorno dopo l’investitura di Aharon e dei suoi figli, fu anche il giorno festoso dell’inaugurazione del Mishkàn, il tabernacolo mobile che accompagnò gli israeliti per trentanove anni nel deserto. Per Aharon e per tutto il popolo si trasformò invece in giorno di lutto. Nella parashà è raccontato che “I figli di Aharon, Nadàv e Avihù, presero ognuno il suo incensiere, vi misero del fuoco e posero su di esso del profumo e presentarono davanti all’Eterno un fuoco estraneo che non avevano avuto ordine di presentare” (Vaykrà, 10:1). Questa infrazione costò loro la vita.  

                Normalmente quando vi è un lutto causato dalla dipartita di un parente stretto, i famigliari fanno i “shiva”, i sette giorni giorno di lutto nei quali  stanno a casa a ricevere amici e conoscenti che li vengono a consolare. I parenti stretti fanno uno strappo sul loro abito e per i trenta giorni di lutto non possono tagliarsi i capelli.  In questo caso invece Moshè diede diverse istruzioni: “Moshè disse ad Aharon e a El’azàr e Itamàr sui figli di non lasciar crescere i capelli e di non strappare i loro abiti…” (Ibid., 6).

                Qual’era il motivo di questa eccezione?  R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Vaykrà, p. 610) si pone questa stessa domanda dicendo: “Il diritto inalienabile che ogni genitore ha di portare il lutto per la morte di un figlio fu negato ad Aharon e ai suoi due altri figli”. I kohanìm costituivano una comunità di persone dedicate esclusivamente al servizio dell’Eterno. Questo impegno dei kohanìm era totale. Aharon non era quindi libero di piangere per la morte dei figli. Anche il suo cuore era proprietà divina. E infatti nella Torà è scritto: “E Aharon tacque” (ibid., 3).

                Per quanto sia difficile per noi capire questo concetto, è forse possibile trovare un esempio che si avvicina alla situazione descritta dalla Torà. Se delle persone devono fare i sette giorni di lutto per la dipartita di un parente, i giorni di festa, come Pèsach, Shavu’òt, Sukkòt, Rosh Hashanà Kippur, interrompono il periodo di lutto. Nello Shulchàn ‘Arùkh è scritto: “Se qualcuno seppellisce [un parente] deceduto prima di un giorno di festa, per cui deve stare in lutto, anche se è stato in lutto anche per una sola ora prima del giorno di festa, il giorno di festa interrompe il lutto e annulla  il decreto dei sette giorni” (S.’A, Y.D, 399:1).

                R. Feivel Cohen (Brooklyn, 1937-) nel suo commento Badè Ha-Shulchàn, offre una spiegazione al testo e scrive: “Non solo il lutto non sussiste nei giorni di festa stessi, perché la mitzvà prescrittiva di essere felici nei giorni di festa, che è una mitzvà di tutto il pubblico, mette da parte la mitzvà del privato di stare in lutto, ma il giorno di festa fa anche cessare i sette giorni di lutto, per cui non deve completare i sette giorni dopo la fine della festa”.

                R. Soloveitchik aggiunge che il lutto non è un rituale o una cerimonia. È “un’esperienza di disperazione e di completo fallimento esistenziale”. In modo simile il precetto di essere felici nei giorni di festa non è quello di fare cerimonie, ma di “avere una genuina esperienza di gioia”. Il precetto della Torà “E gioirai nelle tue feste” (Devarìm, 16:14), non significa che dobbiamo divertirci, ma che dobbiamo avere un’esperienza di gioia spirituale, di serenità e di pace che derivano dalla fiducia in Dio e nella consapevolezza della Sua presenza. Un ebreo o un’ebrea che hanno perso dei parenti stretti devono rendersi conto che anche loro sono persone dedicate al servizio dell’Eterno e all’arrivo di un giorno di festa devono interrompere i sette giorni di lutto, cambiare i vestiti, accendere le candele e fare il kiddùsh sul vino.        

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