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    di Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

     

    Uno spettro si aggira per il mondo ebraico, si direbbe con una frase famosa. In realtà ce ne sono molti di spettri circolanti. Ma stavolta c’è uno spettro nuovo, che è stato chiamato con un nome finora (a me) ignoto: hamanismo, da Hamàn, il protagonista negativo della meghillà di Ester. Sappiamo tutti chi era Hamàn e del suo proposito di sterminare tutto il popolo ebraico vivente nel grande impero persiano. Chi ha suggerito il neologismo “hamanismo” spiega che:

    “nella mente bigotta e contorta di Haman, le differenze devono essere soppresse. Haman sogna una distopia di uniformità, in cui tutti pensano allo stesso modo e tutti si attengono a un solo insieme di regole: le sue.”

    Di qui la definizione:

    L’hamanismo è la paura della differenza, e sta alla base di ogni regime autoritario”.

    In ogni processo antisemita le componenti sono varie e certamente c’è anche quella della paura della differenza. Ma dire che questa fosse il movente principale di Hamàn è un’interpretazione non molto solida. Haman era una personalità complessata, egocentrica, autoritaria, sanguinaria. Nell’impero persiano, ci racconta la meghillà, c’erano 127 province, ciascuna con la sua scrittura e la sua lingua; le diversità abbondavano e se Haman partiva dall’odio per la diversità avrebbe dovuto fare non uno ma parecchi genocidi. Haman ce l’aveva con una sola diversità, quella ebraica.

    È purtroppo vero che noi abbiamo, tra i tanti nostri problemi, quello della intolleranza e della aggressività interna, e che dobbiamo contrastarla. Ma attaccargli una definizione basata su una lettera parziale e tendenziosa dei fatti antichi è un errore. Una distorsione politica e ideologica che non aiuta a risolvere i problemi ma li esaspera. Tra l’altro “il perfido Hamàn” intendeva risolvere la questione ebraica con lo sterminio delle persone e il saccheggio delle proprietà. Oggi, tacciare di hamanismo gli intolleranti in mezzo a noi significa accusarli anche di propositi omicidi e di rapina. Forse qualche estremista ce li ha i propositi omicidi, purtroppo, e non sarebbe una novità nella nostra storia, ma un’etichetta di questo tipo è troppo generica e offensiva, e invelenisce la discussione.

    C’è un altro aspetto problematico in questa denuncia dell’hamanismo, anche questo legato a una lettura libera e parziale delle fonti della nostra tradizione.

    Si afferma questo:

    I nostri saggi erano così spaventati dall’uniformità che hanno persino decretato che se un verdetto in un processo capitale è unanime, non è valido. Noi maneggiamo una cultura che vede la differenza come fonte di ricchezza. Duemila anni fa, quando i nostri rabbini proclamarono che “Ci sono 70 facce della Torah”, avanzarono l’idea molto moderna che le nostre differenze non devono dividerci.

    Il nostro abbraccio della diversità non è semplicemente una caratteristica aggiunta all’ebraismo; è essenziale per la teologia ebraica. La grandezza di Dio, dice la Mishnah, può essere vista dal fatto che mentre “un uomo batte molte monete dallo stesso dado, tutte le monete sono uguali”, mentre Dio “batte ogni uomo dal dado del Primo Uomo, e tuttavia nessun uomo è uguale al suo simile”. (Sanhedrin 4:5) È in chi è diverso che vediamo la grandezza di Dio. Poiché le differenze sono un’espressione della volontà di Dio, non rispettare le differenze è un insulto a Dio.

    Tutte queste affermazioni sono vere, belle, commoventi, perfette per derashòt, tavoli di dialogo, apologie in differenti contesti, ma non esauriscono il quadro.  È vero che tutto il Talmud si basa su discussioni tra opinioni differenti, che sono la sua vita e la vita dell’ebraismo rabbinico, ma bisogna vedere anche cosa succedeva alla fine delle discussioni a chi non accettava il parere e le regole della maggioranza. E se i Maestri discutevano tra di loro, non risparmiandosi anche insulti, nel frattempo eliminavano dalla discussione i pensieri che non si adeguavano al sistema, attaccandoli non solo con argomenti logici ma anche con durezza, scherno e disprezzo. E poi un conto è la ricchezza del creato e dell’umanità, il colore della pelle, dei capelli o degli occhi, e un conto la diversità delle opinioni. Se oggi va di moda il politically correct dobbiamo toglierci dalla mente che questo fosse la regola nei secoli passati e nei testi fondanti. Oggi, come tante volte in passato si cerca di trovare per le tesi e le mentalità prevalenti un supporto antico; ci si riesce sempre, tra le 70 facce della Torà, ma il risultato è sempre un po’ traballante. La predica della tolleranza basata sulle fonti regge poco.

    In riferimento alla situazione comunitaria, la denuncia che viene fatta è questa:

    Anche la comunità ebraica sta diventando così; abbiamo sempre meno in comune con “l’altro” e stiamo creando un clima in cui il dissenso è penalizzato e la diversità di opinioni scoraggiata. … Il risultato è che non abbiamo più una sola comunità ebraica, ma piuttosto una folla di sette in guerra. Stiamo sostituendo la ragione con la rabbia e la discussione con la diffamazione. Stiamo assistendo alla morte della civiltà – in America, in Israele e nelle nostre comunità – e quando il vivere civile muore, la civiltà segue.

    Ecco perché oggi, la principale linea di frattura nel mondo ebraico non è tra sinistra e destra, religiosi e laici, ortodossi e riformisti, progressisti e conservatori, falchi e colombe, israeliani e diasporici: è tra coloro che accettano e abbracciano la complessità e il pluralismo del mondo ebraico e coloro che non lo fanno.

    L’analisi è corretta ma solo fino a un certo un punto. Gli ebrei sono sempre stati divisi, e se certe divisioni del passato oggi sono solo un ricordo, non vuol dire che non fossero accompagnate anche allora da rabbia e diffamazione e da tensioni. Gli schieramenti e l’oggetto della discussione cambiano continuamente, perché la storia e i suoi problemi cambiano; ma non cambia l’asprezza. Il tema divisivo di oggi sembrerebbe il “pluralismo”, ma è solo la faccia nuova e il nome nuovo di qualcosa di molto antico. Il pluralismo c’è sempre stato, perché ognuno ha sempre scelto di vivere o non vivere il suo ebraismo come meglio gli pareva, o come gli poteva essere consentito, con scelta individuale o di gruppo, ma questo ha sollevato domande, dubbi e polemiche nel resto della collettività e la questione era, allora come oggi, se certe scelte individuali o di gruppo possono garantire la continuità e la sopravvivenza. Il pluralismo c’è sempre stato, qualche volta è stato rifiutato (per fare qualche esempio: ellenismo, cristianesimo, qaraismo, sabbatianesimo) altre volte ha suscitato divisioni profonde che sono state in parte metabolizzate e entrate con piena dignità nel “sistema” (ad esempio il chasidismo e il sionismo). Che cosa si intende oggi per pluralismo? Fermo restando che la rabbia e la diffamazione vanno combattute, non tutto ciò che è plurale è necessariamente buono e virtuoso.

    Una delle regole più difficili da osservare per un ebreo è quella della ahavàt Israel, l’amore per il suo popolo, senza riserve e malgrado tutto. Ma anche chi è animato dal più sincero sentimento di ahavà non rinuncia ai suoi valori e se li vede minacciati li difende, sempre con ahavà. Ci è stato insegnato di distinguere tra choteìm (peccatori) e chatàìm (peccati), invocando la fine degli ultimi e il pentimento dei primi, ma non di ammettere i “peccati” come realtà legittima da difendere.

    In conclusione. L’intolleranza e l’aggressività non dovrebbero inquinare la vita comunitaria ebraica. Ma definire tutto questo come hamanismo è improprio e fuorviante. Così come definire i nostri testi classici come campioni della diversità è una deformazione. Molte idee nuove e diverse sono state accettate nell’ebraismo, ma molte altre sono state rigettate. La discussione sul “pluralismo” di oggi deve basarsi sul rispetto, ma il pluralismo non deve essere un pilastro intoccabile.

     

    *Con riferimento all’articolo di Andrés Spokoiny, pubblicato su https://www.joimag.it/haman-e-morto-ma-attenzione-agli-hamanismi/

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