
Una festa per tutti gli ebrei e i loro amici
La liberazione degli ultimi venti rapiti vivi e il ritorno delle salme dei defunti (di coloro cioè che sono stati assassinati da Hamas, il 7 ottobre o in seguito), è un grande sollievo per tutta Israele e per gli ebrei del mondo. Chi non appartiene al piccolo popolo ebraico, chi non porta sulle spalle millenni di persecuzioni, di umiliazioni, di stragi, fa fatica a capire come siano intimi, concreti, quasi corporei, il lutto e l’angoscia per gli ebrei a causa di ogni rapito o ucciso per la sua identità ebraica. La liberazione dei prigionieri e la sepoltura dei defunti sono precetti religiosi importantissimi nell’ebraismo, ma in esse vi è anche qualcosa di personale. Ognuno di noi sa che poteva essere al posto di quelli che giustamente chiama fratelli; non c’è famiglia in cui gli antenati non abbiano subito violenze intese a colpire loro non per qualcosa che avessero fatto, ma con l’intenzione di arrivare a cancellare tutto il popolo ebraico. Per questa ragione riportare a casa tutti i rapiti, senza concedere ai terroristi mano libera per ripetere (come dichiarano di voler fare) i loro crimini in futuro, è una grande festa. Anche se, come tutte le feste, essa ha un costo: in questo caso la scarcerazione di centinaia di assassini, colpevoli proprio di aver ucciso, stuprato, rapinato, mutilato ebrei. Ne sarà valsa comunque la pena, se questo è stato il prezzo per liberare i rapiti e mettere in condizione di non nuocere i loro rapitori.
La dimensione internazionale
Ma la vittoria non si ferma qui. Vi sono due aspetti da considerare, uno internazionale, uno locale. L’affermazione internazionale di Israele è chiara. L’uomo più potente del mondo, il presidente degli Stati Uniti, è venuto al parlamento israeliano, la Knesset, per partecipare alla festa. Ha invitato il Primo ministro israeliano a partecipare al vertice sul Medio Oriente che si terrà a Sharm El Sheik, e Netanyahu ha dovuto rifiutare l’invito per non violare la festa ebraica di Simhat Torà, che in Israele cade domani. Non vi sarà occasione per i contatti diretti annunciati con Erdogan, al-Sisi e altri capi di Stato e di governo che volevano parlare direttamente con Netanyahu. Per la stessa ragione è possibile che non si svolga la visita in Israele, annunciata d’improvviso, del presidente dell’Indonesia, che coi suoi quasi 300 milioni di abitanti è di gran lunga il maggiore paese islamico e finora non riconosceva lo Stato ebraico. Ma si tratta di appuntamenti non annullati, solo rimandati.
Il riconoscimento dei vicini
La maggior vittoria di Israele in questa guerra sta precisamente in questo: il criminale attacco terroristico e missilistico del 7 ottobre e la guerra successiva furono fatti per impedire l’estensione dei patti di Abramo, la normalizzazione della situazione di Israele, la sua accettazione nel contesto mediorientale. Ora la guerra finisce invece proprio con un’estensione dei rapporti fra Israele e i suoi vicini, con un’accettazione che avrà immense conseguenze strategiche, sia sul piano economico che militare. Già durante la guerra c’era stata una costante e silenziosa collaborazione militare fra Israele e Stati come Giordania, Egitto, Arabia, Emirati. Ora questi rapporti possono venire alla luce, grazie alla tempestiva iniziativa di Trump. Nascerà così quella linea commerciale, ma anche di civiltà che legherà l’India all’Europa e agli Usa attraverso l’Oceano Indiano, l’Arabia, la Giordania, in diretta concorrenza con la “Via della Seta” della Cina, che non per caso ha inutilmente cercato di sostenere l’Iran nella sua aggressione. Novità importanti ne conseguiranno anche per i punti di crisi dell’Ucraina e di Taiwan.
Il fallimento dell’Europa
Chi è rimasta del tutto fuori da questa linea è l’Europa, o meglio i paesi governati a sinistra (Spagna, Francia, Belgio, Irlanda, Slovenia, con l’accompagnamento fuori dalla Comunità di Gran Bretagna, Canada, Australia e la rilevante eccezione di Germania e Italia). Credevano di risolvere la crisi secondo il vecchio concetto di fare pressione, umiliare e minacciare Israele, e invece risolutiva è stata la coercizione su Hamas, frutto dell’offensiva israeliana (anche del bombardamento di Doha) e dell’iniziativa di Trump. Qualcuno dovrà anche spiegare in Italia perché dicendosi pacifista ha puntato su nemici della pace, alleati e esaltatori del terrorismo di Hamas.
Il piano locale
Resta da chiarire che cosa accadrà sul piano locale. Diversi dirigenti di Hamas hanno dichiarato che non vogliono cedere le armi né andare in esilio, come prevedevano i 20 punti di Trump. Molto probabilmente sono parole al vento, bisogna credere al presidente americano quando prevede che si adegueranno, oppure… Ma se non lo facessero, restano due soluzioni, la più probabile è la ripresa della guerra da parte israeliana, senza l’incubo di poter colpire i rapiti, usati come scudi umani dai capi terroristi. Israele a quanto pare conosceva da tempo la collocazione degli uni e degli altri e non poteva intervenire con la sua solita efficacia e precisione proprio per la presenza dei rapiti. Ora una soluzione alla Nasrallah è molto più semplice. L’altra soluzione, se ci fosse un veto americano alla guerra, è la continuazione dell’assedio: Hamas è uscito allo scoperto non su tutta Gaza, ma su un territorio di meno della metà della Striscia, dove si trova a dover fronteggiare la rivolta di potenti tribù che non sopportano più la distruzione e il fallimento. Israele può stare a guardare, installare, secondo il piano di Trump, un’amministrazione civile e una forza militare internazionale sulla metà di Gaza che controlla, bloccare ogni concentrazione offensiva o ogni lavoro di fortificazione (anche questo è nelle intese con Trump) e aspettare il collasso dei terroristi.
Un monito per il futuro
Insomma, c’è da gioire, proprio alla vigilia dell’anniversario secondo il calendario ebraico del lutto terribile di due anni fa. E un’altra volta, come nel 1948 o nel 1967 o nel 1973, Israele può dire di aver vinto una guerra in cui è stato aggredito a tradimento, senza provocazione, da parte di nemici più numerosi che lo circondavano. Ancora una volta Israele ha mostrato il vero significato di quel “mai più” che si spreca spesso nella retorica della Giornate della Memoria: l’autodifesa fino alla vittoria e non il compianto dei “buoni” a stragi fatte è la chiave della sicurezza del popolo ebraico. Con la speranza che questa vittoria scoraggi gli aggressori, almeno per il tempo prevedibile. Nella festa di oggi c’è anche un monito per il futuro: chi attacca Israele paga un prezzo pesante.