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    MSI e antisemitismo. Come salvare la memoria dal rischio dell’oblio

    Nell’ultimo mese il presidente del consiglio Giorgia Meloni è stato al centro del dibattito pubblico non solo per vicende politiche, ma anche in virtù dei suoi interventi ad alcuni momenti commemorativi legate alla memoria dell’antisemitismo.  Al netto dell’importanza di questi chiarimenti e aperture di dialogo, ci sembra che purtroppo le parole dette in conferenza stampa il 29 dicembre – in riferimento all’anniversario del MSI – rivelino un quadro non privo di nodi irrisolti. Sul tema specifico dell’antisemitismo, Meloni si è trincerata dietro una frase di circostanza: “Non mi torna questo eterno gioco al rilancio per cui si deve sempre cancellare di più. Il Msi, per esempio, è stato un movimento sempre chiarissimo sul tema della lotta all’antisemitismo”. 

     

    La storia ci racconta una realtà diversa e certamente più complessa. Il partito erede diretto di quella multiforme cultura alla base del fascismo e della Repubblica sociale italiana ha certamente una storia variegata, attraversato da anime, sensibilità e tendenze differenti e a tratti conflittuali. Al suo interno si mossero con disinvoltura, assumendo spesso ruoli apicali, componenti che rivendicarono apertamente la natura rivoluzionaria ed eversiva, tentando di includere anche la cultura antisemita tra il patrimonio ideologico del MSI. 

    Ci riferiamo innanzitutto a Pino Rauti – uno delle figure di riferimento del movimento – e all’esperienza del Centro studi Ordine Nuovo e del suo organo di stampa.  L’antisemitismo professato sul giornale era di taglio esplicitamente spirituale, in opposizione con quello biologico, legato soprattutto agli insegnamenti di Julius Evola. Stereotipi comportamentali e culturali riverberavano in numerosi altri scritti che denunciavano le caratteristiche razziali, psicologiche e morali degli ebrei. Non mancavano gli attacchi alla plutocrazia, alla borsa e all’idea del complotto ebraico dietro il nuovo ordine mondiale e la decadenza dei valori occidentali, fino a interventi di taglio apertamente negazionista.

    Il linguaggio delle riviste radicali di destra non tardò a tradursi in un interminabile stillicidio di azioni antisemite, a partire da un raid a Roma nel maggio 1958 quando alcuni militanti provenienti da un comizio di Michelini si recarono davanti alla sinagoga e la vandalizzarono; la sera i missini erano tornati in corteo, con gagliardetti e striscioni, lanciando petardi contro i passanti e i negozi. Anche nelle centinaia di azioni antisemite negli anni seguenti non mancarono precise responsabilità attribuibili ai movimenti giovanili dell’MSI, in particolare al movimento universitario FUAN, l’ambiente dove più largamente penetravano ideali antisemiti del tutto compatibili con le idee veicolate da Ordine Nuovo. 

    Di fatto, l’antisemitismo della destra radicale risultava tutt’altro che irriducibile alla cultura militante del Movimento sociale italiano. In tal senso va interpretato anche la tendenza tra i dirigenti di dichiarare il razzismo “estraneo alla mentalità italiana”, nonché l’intervista che Almirante concesse in una puntata di Tribuna Politica del 1967, in cui il segretario sostenne di non sentire il bisogno di liberarsi di nulla perché “quello che ero, come stato d’animo e mentalità, sono rimasto e lo rivendico”, cambiando in realtà solo le formule esteriori del proprio discorso. La spiegazione politica delle leggi razziali, continuava Almirante, “la darei rifacendomi ai tempi senza voler condannare gli uomini”; avrebbe spiegato le leggi razziali “con le circostanze, con le necessità di determinate alleanze, con certe convergenze” arrivando a enfatizzare una lettura revisionista emersa nella requisitoria del processo Eichmann, che sottolineava piuttosto un presunto sforzo dell’“Italia di Mussolini” nell’aver “concretamente difeso le vite di tanti ebrei”. L’intervista di Almirante, portata dalla pubblicistica amica come prova della presa di distanza dalle leggi razziali, era una sfacciata difesa d’ufficio del fascismo e delle sue responsabilità.

    A rincarare la complessità del tema, occorre ricordare che in occasione dell’intervista, Julius Evola scrisse proprio ad Almirante una lettera biasimando il “poco simpatico cedimento” per opportunità politica sul tema razzista. Ciò che Almirante avrebbe dovuto sottolineare era come nel patrimonio storico del postfascismo italiano fosse centrale la differenza tra l’antisemitismo italiano e quello tedesco e il carattere positivo del razzismo voluto da Mussolini, inteso, continuava Evola, come “difesa dal meticciato” e “rafforzamento del senso di dignità della razza bianca della nostra nazione di fronte ai popoli di colore”.

    Se Almirante rappresentava una possibile svolta verso la normalizzazione del partito, il volto ormai in doppio petto di una parte di società relegata ancora ai margini della grande politica, era evidente che dentro l’MSI era presente una dialettica che ospitava anche una diffusa tensione antisemita, parte integrante dell’articolato universo culturale del partito. Nel ricordo di Meloni dell’esperienza storica dell’MSI tutto il contenuto eversivo e razzista di almeno di una parte di esso viene semplicemente e costantemente rimosso. 

    Il processo di rimozione selettiva è peraltro riscontrabile proprio in quelle parole che apparentemente segnano una cesura con il passato razzista del fascismo. Nei recenti discorsi in occasioni pubbliche, Meloni ha dichiarato le leggi razziali come “una macchia indelebile, un’infamia che avvenne nel silenzio di troppi”, “il punto più basso della storia italiana”, riuscendo nell’impresa di non pronunciare mai una condanna esplicita del fascismo e operando una sovrapposizione tra il popolo italiano e il regime che sarebbe piaciuta senz’altro ai suoi padri.  Occorrerebbe chiedere a Meloni se sia d’accordo su questa frase: “L’antisemitismo di Stato in Italia è stato pensato, voluto, teorizzato, introdotto e applicato da Mussolini e dal fascismo, in continuità con la tensione totalitaria che ne animava la cultura sin dalle origini e non come espressione di determinate contingenze”.

    La storia serve a dare più giuste e adeguate dimensioni a fenomeni istituzionali e culturali, sottraendo la memoria dai rischi dell’oblio, delle rimozioni selettive e delle strumentalizzazioni politica. Anche ricordare oggi persecuzioni e resilienze degli ebrei italiani non può condurre a sottacere la responsabilità fascista sull’antisemitismo italiano del Novecento. Può e deve servire invece a suggerire a ciascuno di noi la necessità di vigilare ogni giorno sui rischi di un ritorno di pratiche e linguaggi a che si esprimono, in molteplici forme, anche nella società attuale; ovvero scegliere da che parte stare, senza timori di un confronto anche aspro e senza sciogliersi in un indistinto calderone in cui si tacciono, per convenienza politica o scorciatoia retorica, le specifiche responsabilità storiche.

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