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    Anno di elezioni, anno di scelte

    “Eligere” significa scegliere, ma solo in Europa farà la differenza

    I collegi elettorali, la formazione delle liste e infine l’apertura dei seggi costituiscono il vero sale della democrazia. Al punto che anche i sistemi autoritari devono periodicamente organizzare parvenze e surrogati per presentarsi con un minimo di legittimità nei consessi internazionali. E anche le ultime monarchie assolute accettano sistemi elettorali a libertà vigilata che garantiscono però l’espressione di una volontà collettiva almeno nelle amministrazioni locali e regionali. Senza la possibilità di una scelta – appunto meliores eligere — di fatto non sarebbe possibile la formazione e la gestione di società complesse quali sono tutte le società contemporanee. Che poi si possano scegliere le persone sbagliate fa parte ovviamente delle eventualità che rendono la politica il gioco più rischioso. Premessa necessaria dunque per affrontare uno dei principali tra i temi geopolitici che caratterizzano il 2024. Si voterà in India, che è la più popolosa democrazia del mondo e chiamerà alle urne oltre 900 milioni di persone tra aprile e maggio. Per la serie sempre attuale intitolata notoriamente “Ma va bene per gli ebrei?” ricordiamo che il primo ministro Narendra Modi è buon amico di Israele e presumibilmente anche degli ebrei. Il Paese è lentamente scivolato nella inedita condizione di radicalismo induista in chiave ovviamente anti-Islam per la politica interna e per il pericoloso conflitto con il vicino ed altrettanto atomico Pakistan. Ma è in ottimi rapporti con gli ayatollah di Teheran e con le monarchie del Golfo. Non si esclude una sua attività di mediazione nella crisi regionale tuttora in corso con Gaza all’epicentro. Modi aveva fatto dell’India il pilastro portante dei BRICS, cercando di costruirsi un ruolo da ago della bilancia nel nuovo ed instabile ordine multipolare. La defezione dell’Argentina ha reso poi del tutto velleitario il progetto. Ed è proprio sul caso del ribaltamento politico verificatosi alla Casa Rosada di Buenos Aires che si può tentare una verifica tanto della validità decisiva di certe determinate vicende elettorali quanto dei luoghi comuni che dilagano soprattutto nei talk-show. Banalità e superficialità, dunque, che caratterizzano il peggiore appiattimento dei liberal europei sulla grande informazione prodotta negli USA, ma soltanto nelle stanze più altoborghesi e più esclusive della East Coast. Con buona pace del grande vicino brasiliano, è sempre in Argentina che si segna nel bene e nel male la vicenda sudamericana. Per una serie di ragioni evidenti a chi il Paese lo abbia visitato, sia pure solo per turismo ai ghiacciai e alla Terra del fuoco. L’Argentina ha tutto, durante la Seconda guerra mondiale fu il granaio degli Alleati e riserva di materie prime. Ma è tradizionalmente male amministrata, e negli ultimi trenta anni ha visto un default seguire il precedente con l’alternanza media di 120 mesi. Il paese è vasto e tutela ambienti naturali di decisiva importanza in modo sostanzialmente adeguato. La posizione strategica appare importante per il controllo dell’Atlantico meridionale, nonostante il mai risolto contenzioso con il Regno Unito per le isole Falkland/Malvinas. Le differenze e l’emarginazione sociale esistono e sono gravi, ma non su base etnica, diversamente – appunto – rispetto al Brasile. L’elezione recentissima del Presidente Javier Gerardo Milei è stata vista come una catastrofe epocale nel mondo lontano dalla realtà di parecchia sinistra italiana (ma pazienza, sono altri i problemi) e soprattutto della grande stampa con le ben connesse reti TV. Forse perché sarà più difficile comprarsi immobili di pregio, miniere e assetti finanziari con un pugno di dollari e di euro dopo la radicale riforma degli apparati burocratici. Per ora Milei ha salvato il suo paese dall’ennesimo imminente default. Forse l’antipatia deriva anche dalla vicinanza e sintonia con il mondo ebraico argentino dopo le derive alimentate dall’Iran, dal Venezuela e dai nazifascisti locali ancora pericolosi dopo quaranta anni dalla fine della dittatura militare. Malissimo digerita, inoltre, dai liberal nostrani l’empatia con lo Stato ebraico e il viaggio a Gerusalemme per portare la solidarietà del popolo argentino dopo i fatti del 7 ottobre 2023. Altre elezioni di peso sono in calendario, tra le quali rilevante il turno in Messico che preoccupa non poco Biden per le ripercussioni sul confine del Rio Grande, ovvero la Lampedusa del Texas. Qui in Italia si è scatenata, restando sui problemi della Casa Bianca, la vera e propria nevrosi che si potrebbe definire “Morbo di Trump”. Sarà una questione sulla quale si dovrà tornare, anche per la presenza inedita di una lobby arabo-islamica. Tuttavia a Bruxelles e in parecchie redazioni non ci si arrende all’evidenza che gli interessi degli USA sono sul versante Oceano Pacifico e sulla ricerca di un aggiustamento operativo con la Repubblica Popolare Cinese. La NATO è un giocattolo guasto, e soltanto la CNN e il New York Times restano a preoccuparsi per gli esiti finali della carneficina sui fronti di guerra in Ucraina. Quanto alle prossime elezioni per il Parlamento Europeo, è forse inutile sovraccaricarle di significati. La realtà delle cose sembra indirizzarsi su copioni ben conosciuti di precisi e contrapposti interessi. Le comunità ebraiche del vecchio continente un motivo serio per preoccuparsi di sicuro lo vedono. Si chiama AFD, Alternative für Deutschland. Le destre estreme con radici e simpatie mal dissimulate hanno ottenuto seggi in Germania. L’antisemitismo può non essere praticato e neppure apertamente dichiarato, tuttavia resta ben radicato nel DNA. E i tedeschi, diversamente da non pochi teatranti della politica che si agitano altrove, sono gente molto seria.

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