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    Gli “agitatori di professione” dei campus americani

    La tentazione di paragonare le attuali manifestazioni studentesche nei campus americani a quelle del ’68 è comprensibile. Tuttavia, il confronto storico risulta fuorviante. Nel 1968, gli studenti si mobilitarono contro il coinvolgimento del governo nella guerra del Vietnam, senza una controparte studentesca direttamente minacciata. Le recenti proteste, invece, hanno diviso il corpo studentesco tra manifestanti filopalestinesi e ragazzi ebrei, che rappresentano una significativa percentuale della popolazione studentesca: alla Columbia University, ad esempio, è pari al 25%.
    Come mostrano i dati forniti dalla polizia, poco meno della metà dei manifestanti arrestati non sono studenti dell’università, ma attivisti esterni, alcuni noti da tempo alla polizia. Il sindaco di New York, il democratico Eric Adams, li ha definiti “agitatori di professione”. Il Wall Street Journal ha messo in luce che le tattiche politiche alla base di alcune manifestazioni sono il risultato di mesi di formazione, pianificazione e incoraggiamento da parte di gruppi di estrema sinistra come “National Students for Justice in Palestine”, veterani delle proteste nei campus ed ex studenti delle Pantere Nere. «Abbiamo preso appunti dalle persone più adulte, in incontri durante i quali abbiamo analizzato il modo in cui l’università ha risposto alle precedenti proteste», ha detto al quotidiano finanziario Sueda Polat, una delle leader dell’accampamento filopalestinese.
    Dentro alle accuse di genocidio e apartheid, mosse dai manifestanti a Israele, non è difficile scorgere atteggiamenti antisemiti. Alla Columbia, gli organizzatori dell’accampamento in favore di Gaza avevano stilato un regolamento che vietava espressamente l’ingresso ai sionisti. Uno dei giovani che si era messo alla testa della protesta, Khymani James, era stato interrogato a febbraio dalla commissione disciplinare per aver pubblicamente dichiarato che «i sionisti non meritano di vivere». Pur avendo difeso l’affermazione, nessun provvedimento è stato preso finché la registrazione dell’interrogatorio è stata resa pubblica, a fine aprile, da una talpa.
    Gli slogan più ritmati dai manifestanti – “intifada, intifada” e “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” – riecheggiano quelli dei nemici giurati d’Israele. Intifada richiama l’ondata di attentati terroristici che ha insanguinato le strade israeliane dal 2000 al 2005. “Dal fiume al mare” implica la cancellazione dello Stato d’Israele, che tra il Giordano e il Mediterraneo si trova. Tuttavia, docenti della Columbia, anche su quotidiani italiani, si sono arrampicati sugli specchi per dare interpretazioni edulcorate a queste parole d’ordine radicali. Molti commentatori hanno sorvolato sul fatto che negli accampamenti a favore di Gaza non venga spesa una parola di compassione per gli ostaggi ancora nei tunnel di Hamas edi condanna dell’orrenda strage compiuta il 7 ottobre.
    Alle lamentele degli studenti ebrei per il clima di intimidazione instaurato nei campus dai dimostranti, le leadership delle università hanno risposto invocando la difesa della libertà di espressione. Così facendo hanno messo a repentaglio un altro diritto, quello degli studenti ebrei di frequentare l’università in sicurezza. E quando la crisi si è aggravata non hanno potuto fare altro che chiedere l’intervento della polizia. A tracciare una linea netta è stato il presidente Joe Biden. «Gli americani hanno diritto a manifestare pacificamente, ma non a provocare il caos», ha detto aggiungendo che l’antisemitismo in America non ha diritto di cittadinanza.

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