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    Questa parashà inizia con le parole: “L’Eterno parlò a Mosè dicendo: parla a tutta la comunità d’Israele e dirai a loro ”Siate kedoshìm perché Io l’Eterno vostro Dio sono kadòsh”. 

                Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che la parola “kadòsh” significa “separato”, cioè “separatevi dall’immoralità sessuale e dalle trasgressioni”.    

                R. Joseph Pacifici (Firenze, 1929-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve-He’aròt (p. 127) spiega che Rashì  sottolinea che questa parashà fu insegnata da Moshè a tutto il popolo e non secondo la prassi normale. Normalmente Moshè riceveva la profezia dall’Eterno, la insegnava ad Aharon, gli anziani la imparavano da Aharon e il popolo dagli anziani. Questa parashà è un’eccezione perché vi è inclusa la maggior parte degli insegnamenti essenziali della Torà. Rav Pacifici aggiunge che anche presso i gentili vi sono persone “yechidè segullà”, di caratteristiche speciali. In questo passo la Torà ci insegna che tutti gli israeliti devono essere speciali e abbracciare la kedushà.

                Una delle prime mitzvòt della parashà è quella che proibisce di chiacchierare raccontando cose che possono nuocere ad altri (“lo telèkh rakhìl”). Riguardo a questa mitzvà Rashì, che normalmente è molto parco nel suo commento, si dilunga nello spiegare l’etimologia e il significato dell’espressione. 

                Rashì scrive: “È mia opinione che i maldicenti vengono denominati “holkhè rakhìl”, gente che va a spiare, perché maldicenti e seminatori di zizzania “vanno a spiare” nelle case degli amici per vedere o sentire cosa c’è di male da raccontare in giro […]. L’espressione “holèkh rakhìl” è equivalente a “holèkh u-meraghèl”[meraghèl significa “spia”], perché la lettera kaf e la lettera ghimel sono intercambiabili in quanto sono entrambe gutturali”.               

                R. Israel Meir Kagan (Belarus, 1838-1933) nella sua prefazione all’opera Chafètz Chayìm, afferma che alla base della maldicenza vi è l’odio per gli altri. Citando i Maestri del Talmud egli scrive che l’odio senza motivo e la maldicenza furono le cause della distruzione del Bet Ha-Mikdàsh e dell’esilio. Per prevenire eventuali critiche egli scrive che ha raccolto tutte le regole sulla maldicenza, attingendole da tutti i passaggi che si trovano nel Talmud e nelle opere dei decisori halakhici, principalmente dal Maimonide, dal Sèfer Mitzvòt Gadòl di R. Moshe di Coucy (Francia, XIII sec.) e dall’opera Sha’arè Teshuvà di R. Yonà Ghirondi (Catalogna, XIII sec.). Infine aggiunge che ha raccolto tali regole anche dal responso n. 188 di R. Yosef Colon (Chambery. 1420-1480, Pavia) detto Maharik dalle sue iniziali. 

                Il responso succitato tratta di un fatto che ebbe luogo nella comunità ebraica di Padova presumibilmente tra gli anni 1450 e 1480. A Padova una donna nubile era rimasta incinta e aveva accusato un certo Aharon Raschia di essere responsabile. I rabbanìm di Padova, dopo aver esaminato il caso, avevano assolto l’accusato da ogni responsabilità. Tuttavia il parnàs del bet ha-kenésset ashkenazita di Padova  si era  rifiutato di chiamare il signor Raschia alla Torà per via delle dicerie che la donna aveva diffuso su di lui, nonostante la decisione dei rabbanìm. Per risolvere la questione i rabbanìm di Padova si erano rivolti a rav Colon, che era il più autorevole decisore halakhico in Italia settentrionale. Rav Colon esaminò la questione e decise a favore del signor Raschia con più motivazioni: non vi erano testimoni; la donna non aveva credibilità perché era chiaro che la sua accusa era motivata dal desiderio di vendicarsi dell’accusato per altri motivi; l’accusato era una persona di reputazione stellare ed aveva un alibi perfetto. 

                R. Colon conclude che la donna è colpevole di maldicenza per aver falsamente calunniato il prossimo. L’analisi delle regole della maldicenza è completa e offre istruzioni su come esaminare i casi di calunnia.    

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