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    Che cos’è accaduto

     

    Fra gli obiettivi dell’ondata terroristica che ha colpito Israele vi è anche un monumento, la Tomba di Giuseppe che sorge alla periferia di Nablus, in Samaria. La tomba è stata devastata due volte negli ultimi giorni da folle di palestinisti. In un altro incidente, due ebrei religiosi che cercavano di recarsi a pregare sulla tomba, disarmati e non scortati, sono stati feriti da terroristi con colpi d’arma da fuoco. Questi fatti hanno suscitato molta indignazione in Israele. Ci sono state dichiarazioni molto dure del ministro della difesa Gantz e del primo ministro Bennett, oltre che dei partiti religiosi e del Likud. Non è la prima volta che la tomba è oggetto di attentati palestinisti. Nel 1996 e poi nel 2000 il monumento fu in sostanza distrutto da folle di fanatici musulmani; ci furono scontri e diversi morti da una parte e dall’altra. Ricostruita da Israele, la tomba fu data alle fiamme nel 2014 e poi ancora e con maggior successo nel 2015.

     

    Perché il monumento è importante

     

    La Tomba di Giuseppe è uno degli edifici che ancora esistono in Israele legati a un episodio biblico. Alla fine del libro della Genesi/Bereshit, Giuseppe seppellisce a Hebron le spoglie del padre Giacobbe morto in Egitto. Nelle sue ultime volontà chiede ai figli di riportare anche la sua salma in Terra di Israele, quando potranno tornarvi (Genesi 50:25) e questo avviene: Mosè fa portare via le sue ossa quando gli ebrei escono dall’Egitto (Esodo 13:19) e il Libro di Giosuè (26:32) racconta che esse sono sepolte a Sichem, proprio la città che oggi è chiamata Nablus. Gli archeologi datano l’edificio attuale al tempo dell’esilio babilonese, come quello che oggi racchiude la Tomba dei patriarchi a Hebron è stato edificato da Erode. Ma senza dubbio i siti di queste sepolture (e anche quella di Rachele, accanto a Betlemme) sono identificati da una tradizione molto antica e sono oggetto di pietà popolare da venticinque o trenta secoli.

     

    Perché la Tomba è stata attaccata

     

    Proprio la loro antichità e venerabilità rende questi monumenti obiettivi per i palestinisti. La storia di Giuseppe è riprodotta anche nel Corano (occupa l’intera sura 12). Ma essa conferma che Giuseppe era “figlio di Giacobbe, nipote di Isacco, pronipote di Abramo”, cioè che era ebreo. La tomba insomma è la prova, anche nei termini dell’Islam che la Terra di Israele, dove Giuseppe volle farsi seppellire come i suoi avi, appartiene al popolo ebraico. Di conseguenza essa è oggetto di un odio nazionale che supera il comune tema  religioso.  Quando riescono a raggiungerle, i palestinisti cercano sistematicamente di distruggere tutte le tracce che della presenza ebraica antica nella Terra di Israele, tutte le testimonianze dei Patriarchi, dei giudici e dei re. Di recente, per esempio, si è parlato molto dei danni inferti a una struttura che gli archeologi identificano con l’ altare che Giosuè costruì sul Monte Ebal, anch’esso vicino a Nablus (Giosuè 24: 29). Per non parlare dello scempio degli scavi compiuti sul Monte del Tempio a Gerusalemme.

     

    Perché la sorte della Tomba di Giuseppe è peggiore di quella degli altri luoghi biblici

     

    Nablus è la seconda città per numero di abitanti arabi nell’intera regione; nessuna meraviglia che un segno ebraico al suo interno sia oggetto di attacchi. Questo vandalismo dipende però anche da una rinuncia israeliana. Dopo gli accordi di Oslo la Tomba conservava lo status di un’enclave controllata dall’esercito israeliano.  Vicino ad essa fu anche costruita una yeshiva. Ma nel 2000, in seguito a una fortissima pressione degli alti quadri militari, con minacce di dimissione del capo del settore meridionale dell’esercito, Yom-Tov Samia, il primo ministro Barak decise di cedere il controllo della tomba all’Autorità Palestinese, in cambio dell’impegno a custodirla e a garantirne l’accesso, che non fu mai mantenuto. Da allora gli incidenti si moltiplicarono, provocando parecchi morti e la frequente devastazione del luogo, non difeso dalle forze dell’Autorità Palestinese. La situazione attuale continua dunque un’intolleranza che dura da decenni: la prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che non vi può essere una presenza ebraica, anche puramente religiosa, dove governano i palestinisti.

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