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    Il 26 settembre del 1973, un mercoledì, fu sera di vigilia di Rosh ha-Shanà. Il capodanno ebraico del 5734 precedeva di dieci giorni, come da sempre secondo tradizione, il Kippur, giorno di digiuno e di espiazione. Dal 6 al 26 anche per gli arabi fu la Guerra del Ramadan. Il tempo dei giorni del digiuno dall’alba al tramonto, che in quello stesso anno 1393 dell’Islam coincideva con le festività ebraiche. Gli ebrei di Israele e delle diaspore ricorderanno per sempre la Guerra di Kippur. Ma forse oggi la memoria si è appannata. Quando esisteva il Tempio un capro maschio veniva affidato al deserto di Jehudà. Terra arida e inospitale oggi duramente disputata, ma che dopo la Guerra dei Sei Giorni era rimasta in pace e poco abitata. Contiamo: il 1972 e il 1973 non erano stati certamente anni facili per gli ebrei del mondo. Neanche in Italia, neanche a Roma. Sono trascorsi cinquant’anni, mezzo secolo, e parlarne oggi è come se si raccontassero nel 1923 –da testimoni dei fatti- le vicende Garibaldi e delle camicie rosse. A partire dal 1969 il terrorismo aveva iniziato a colpire le istituzioni israeliane nel mondo, e minacciava la quotidianità della vita di ciascun ebreo che a Israele fosse legato. In pratica tutti. Le ambasciate e il personale diplomatico sembravano il bersaglio preferito. Paraguay, Turchia, Belgio, Regno Unito, Tailandia, perfino gli USA. La strage del 5 e 6 settembre ’72 alle Olimpiadi di Monaco fu il segnale che la situazione era ormai arrivata al punto di non ritorno. La mattina del 17 giugno 1973, poco dopo le 10.15, l’esplosione accidentale di un detonatore incendiò una Mercedes 200 in Piazza Barberini a Roma. All’interno furono rinvenuti un paio di quintali di alto esplosivo. Pochi dubbi su quali fossero i potenziali bersagli. I due terroristi a bordo dell’auto furono catturati e in seguito rilasciati, come d’uso in quel tempo e negli anni successivi. Ne sappiamo qualcosa. La nostra Comunità si preoccupava, ma all’epoca preferivamo andare avanti senza clamore, lasciando gli interventi a chi fosse in grado di muoversi dietro le quinte. La carta stampata e l’informazione non erano amiche. Tutto odorava di petrolio arabo, i social non esistevano. Devo scrivere in prima persona, e come insegnano i Maestri forse non è bene. Furono fatti e storie di tanti che oggi sono parecchio over 70. Qualcuno già se ne è andato, purtroppo. Dal 1972 al 1974 ebbi il privilegio e l’onore di essere l’assistente di Nathan Ben Horin z.l. Era all’epoca il capo dell’ufficio stampa dell’Ambasciata di Israele presso la Repubblica Italiana. Come me, non pochi ragazzi e ragazze lavoravano in fase di formazione, e per la prima autonomia economica, negli uffici di rappresentanza israeliani. Nell’estate del 1973 il Keren Kayemeth aveva organizzato un viaggio di studio geopolitico –così si direbbe adesso—e di lavoro nei kibbutzim per un folto gruppo di giovani ebrei. Si percepiva in Israele ansia e preoccupazione. La situazione di stallo durava dal 1967, con la sanguinosa parentesi della guerra di attrito -1970- sul Canale di Suez. Henry Kissinger non era riuscito a mediare. Il mondo arabo stava fermo sui “Tre no di Kartum”, dunque nessuna trattativa. Si temeva che il presidente egiziano Anwarel-Sadat stesse preparando qualcosa con il tacito assenso di Washington e la protezione dei sovietici. Ma in Israele dominava un senso di sicurezza. Falsa, come poi si dovette comprendere. La cosiddetta Linea Bar Lev, capo di stato maggiore della Zavà, veniva ritenuta insuperabile da Suez a Porto Said. Si raccontava che il Canale fosse minato, e un muro di fiamme avrebbe bloccato ogni tentativo di forzarlo. Il 6 ottobre gli egiziani lo attraversarono in poche ore, praticamente senza perdite. La sorpresa, tattica e strategica, fu totale. Sapevano che troppi soldati erano in licenza, e sapevano anche che in prima linea restavano ragazzi indeboliti dal digiuno. Sapevano anche che le festività rallentano le comunicazioni. Israele era un paese molto diverso da quello che conosciamo oggi. Molto laico, molto socialista, pochi Haredim a praticare la strettissima osservanza. In tutto 3.280.000 abitanti entro la cosiddetta Linea Verde delle origini, arabi inclusi. Alla fine di settembre il nostro gruppo si trovò sul Golan. A un punto di ristoro dell’esercito, che una collina separava dalle linee siriane distanti non più di tremila metri, sentivamo le esplosioni dei proiettili di artiglieria che cadevano sul versante opposto. Quelli che oggi chiacchierano a vuoto di guerra e di interventi militari in Africa o altrove, dovrebbero ascoltare da vicino certi concerti. “Sono i siriani che si esercitano con i grossi calibri, è tutto tranquillo”. La paura non è prevista nel contratto ebraico. Quindici giorni dopo e a partire proprio da quell’avamposto le linee di difesa sul Golan furono praticamente sfondate. Recuperare l’altopiano e il Monte Hermon costò migliaia di giovani vite. Sul Golan morì al comando di un tank il figlio dell’addetto militare dell’Ambasciata. I quotidiani commentavano con un certo compiacimento la fine del mito, così lo definivano, della invincibilità di Israele. Però, come nel 1967, anche allora non ci fu scelta, en brerà. Fuori del nostro Tempio Maggiore noi giovanissimi trascorremmo un 16 ottobre che non potremo dimenticare. Erano trascorsi appena 30 anni. Sapevamo che “gli altri”, tranne poche eccezioni, non capivano. Ma voglio qui ringraziare gli amici de “La Voce Repubblicana” di quelle settimane, anche se non ci sono più.

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