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    Una pericolosa routine

     

    Quella appena terminata (se terrà il cessate il fuoco annunciato sabato notte) è l’ottava operazione di difesa condotta da Israele a Gaza dopo il disimpegno unilaterale del 2005. Le crisi precedenti avvennero a giugno 2006, febbraio e poi dicembre 2008/gennaio 2009; novembre 2012,  luglio 2014,  maggio 2021, agosto 2022: tutte hanno seguito più o meno lo stesso schema: si inizia con attacchi missilistici provenienti da Gaza più o meno in profondità sul territorio israeliano, sempre su obiettivi civili, parati in parte dal sistema Iron Dome ma comunque capaci di fare danni, vittime e di impedire la vita normale del paese; interviene l’aviazione israeliana che colpisce invece obiettivi militari, tunnel d’attacco, fabbriche d’armi, sistemi di lancio, gruppi e comandanti terroristi. Se l’aggressione contro il territorio israeliano prosegue in maniera intollerabile, diventa necessaria un’operazione di terra che Israele però cerca di evitare per non subire le perdite di militari nel combattimento diretto e per non coinvolgere la popolazione civile di Gaza. Alla fine comunque vi è un cessate il fuoco di solito mediato dall’Egitto, con alcune violazioni iniziali e poi una tenuta per qualche tempo. Si tratta ormai di una routine evidentemente insensata: i terroristi sanno bene che sparare migliaia di razzi contro Israele non li porterà certamente vicini alla vittoria, anche perché un quarto ricadono a Gaza, la metà vanno su terreni vuoti e il resto viene abbattuto da Iron Dome; per caso riescono a fare danni su qualche casa e ad assassinare qualcuno, possono sperare in un colpo fortunato, ma certamente non indeboliscono seriamente Israele, al massimo mostrano al loro pubblico e ai loro sponsor (prima di tutto l’Iran) che sono loro a combattere i sionisti. Israele naturalmente deve difendere la sua popolazione civile e mostrare di saper far pagare il prezzo del terrorismo, ma lo Stato Maggiore delle Forze Armate non crede di poter spiantare i terroristi da Gaza senza rioccupare il territorio, un’opzione esclusa perché troppo costosa in termini di perdite sia israeliane che dei civili di Gaza e che avrebbe un prezzo diplomatico intollerabile.

     

    La dissuasione funziona

     

    Questa operazione era nell’aria da qualche tempo. Israele temeva che fosse la prova generale della strategia d’attacco multifronti che l’Iran sta perseguendo da tempo. Ma ciò fortunatamente non è accaduto. Sia a Nord-Est (Hezbollah, Siria, l’Iran stesso), sia in Giudea e Samaria (Fatah), sia nelle città arabo-israeliane, sia infine all’interno della stessa striscia di Gaza (Hamas), le forze che avrebbero potuto unirsi all’aggressione terrorista rendendola molto più difficile da gestire hanno invece lasciato solo il movimento della Jihad Islamica, che aveva fatto partire l’attacco per vendicarsi della morte in carcere (peraltro autoinflitta il 2 maggio alla fine di un lungo sciopero della fame) del proprio dirigente Khader Adnan e poi ha subito solo gravi perdite. Ciò dimostra che la deterrenza israeliana continua ad essere molto forte: i nemici sanno che pagherebbero pesantemente ogni atto ostile, mentre se ne astengono possono avere “calma in cambio di calma”. Come era già accaduto nell’ultima campagna, Israele ha sottolineato quest’impostazione attaccando a Gaza solo gli obiettivi della Jihad Islamica, senza toccare Hamas, che pure ha espresso solidarietà e certamente ha permesso i lanci della Jihad. E’ una scelta rischiosa, perché permette il rafforzamento politico e anche militare di Hamas, ma per il momento funziona, sia nel senso del provocare divisioni fra i nemici, sia esercitando una sorta di pedagogia della dissuasione. I nemici inattivi vedono qual è la sorte di chi attacca e possono immaginare qual che accadrebbe a loro.

     

    Innovazioni tattiche

     

    Questa campagna ha sviluppato due innovazioni tattiche già sperimentate in parte con successo l’anno scorso. La prima è l’effetto sorpresa. Dopo il centinaio di razzi sparati dalla Jihad in seguito alla morte di Adnan, ci fu una risposta immediata, ma giudicata “molto debole” nelle comunità colpite dal terrorismo e anche nella maggioranza di governo israeliana. Era solo una finta, perché la risposta vera e propria è avvenuta alcuni giorni dopo. Essa è consistita nel colpire direttamente tre capi terroristi dell’organizzazione, cui poi la Jihad ha reagito con altri razzi. L’attacco ai capi terroristi è la seconda innovazione importante. L’aviazione israeliana ha preso come obiettivi non solo  le infrastrutture militari (depositi, caserme, centri di avvistamento, tunnel) e i gruppi di fuoco, ma i quadri militari più elevati del terrorismo, eliminandone sei fra i più imporatanti, tutti direttamente responsabili del terrorismo missilistico, e spesso anche di altri crimini. Si tratta dunque di obiettivi militari legittimi. Per colpirli ha badato nei limiti del possibile che non vi fossero intorno a loro estranei, mirando con grande accuratezza ai locali dove si trovavano, senza abbattere le case di cui essi facevano parte  e dunque senza quasi colpire altri abitanti: un grande risultato tecnico sia per i servizi segreti che per chi ha guidato le armi. Inoltre, con la solita procedura di avvertimento (“bussare sul tetto”, cioè mandare una bomba innocua per far fuggire gli abitanti e non colpirli), l’aviazione ha distrutto le case di una trentina di altri dirigenti dell’organizzazione terrorista. Un’altra innovazione importante è stato il primo uso operativo dell’antimissile “Fionda di Davide” che intercetta missili balistici a più lunga gittata di Iron Dome: un’arma di difesa contro armi che vengono da lontano, dunque, per esempio dallo Yemen o dall’Iran

     

    Cosa accade ora

     

    Il risultato dell’operazione è molto positivo per Israele, al di là della solite condanne formali delle organizzazioni internazionali, di alcuni stati arabi e della sinistra, peraltro meno forti di qualche anno fa. Le dichiarazioni di “vittoria” che vengono da Gaza sono patetiche. Se gli ultimi mesi di contestazioni e proteste anche nell’aviazione potevano aver dato a qualcuno l’illusione che Israele fosse militarmente e socialmente in crisi, questa speranza è stata delusa. E magari anche all’interno dello stato ebraico molti hanno capito che i pericoli veri per il paese non sono quelli prospettati nelle manifestazioni e che la guida di Netanyahu che è stato il responsabile e il regista di questa operazione di autodifesa, resta una garanzia per la sicurezza del paese. Anche perché nel bel mezzo dei combattimenti ci sono stati dei manifestanti che agitavano bandiere palestiniste: una scelta sciagurata, che ha squalificato moralmente agli occhi di molti israeliani i responsabili.

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