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    Dichiarazioni preoccupanti

    Le relazioni fra Usa e Israele si vanno visibilmente deteriorando. In una conferenza stampa, peraltro caratterizzata da confusioni, buchi di memoria e silenzi imbarazzanti, il presidente Biden ha dichiarato che “la risposta di Gaza è stata over the top”, cioè oltre il limite, esagerata. Un portavoce ha poi specificato che l’espressione non si riferiva alla trattativa degli ostaggi, ma al comportamento di Israele. Il segretario di stato Blinken ha pronunciato pubblicamente una frase che preoccupa per la sua somiglianza a temi antisemiti ricorrenti: “Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre”, ha detto in una conferenza stampa a Tel Aviv. leggendo un discorso preparato, cioè scritto e ben meditato, non in una battuta estemporanea “Da allora gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno. Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri”. Vi è anche stato il decreto presidenziale che sanziona quattro dirigenti della Giudea e Samaria, ma minaccia tutti i loro abitanti, fino a ministri importanti come Smotrich e Ben Gvir. Infine vi è l’ammissione di Thomas Friedman, giornalista del NYT che fa anche il consigliere presidenziale, che lo scopo dell’impostazione dei rapporti degli Usa con Israele è far cadere il governo Netanyahu e sostituirlo con una maggioranza più a sinistra.

    Posizioni elettorali

    Si legge spesso in questo atteggiamento una difficoltà di relazioni personali fra Biden (anche in questo erede di Obama) e Netanyahu, il che è certamente vero. Lo si attribuisce anche a interessi elettorali: Biden è in campagna per la rielezione, ha bisogno dei voti dell’estrema sinistra antisraeliana e degli arabi che sono numerosi in certi stati disputati come in Michigan (mentre gli elettori ebrei sono concentrati in stati già sicuri per i democratici come New York). E anche Netanyahu non può cedere troppo agli americani senza perdere l’appoggio della sua base elettorale. Ma vi è certamente di più.

    La posizione di Israele

    Il pubblico israeliano (e anche buona parte dei politici) ha imparato una dura lezione dal 7 ottobre, analoga ma più forte ancora di quella che aveva dovuto subire dall’ondata terroristica fra il 2000 e il 2002: non è possibile convivere con forze terroriste organizzate ai propri confini. Non bisogna credere ai discorsi pacifisti che i loro dirigenti fanno talvolta in inglese per l’audience internazionale, ma alle minacce che continuano a ripetere in arabo per i propri militanti. Non si può ottenere la pace migliorando la condizione economica delle zone palestinesi, perché esse sono governate secondo l’ideologia della distruzione di Israele e non all’interesse della popolazione. Non è dunque possibile accettare la costituzione di un vero stato palestinese accanto a Israele, perché esso diventerebbe un santuario terrorista e investirebbe gli aiuti in armi e fortificazioni antisraeliane come è accaduto a Gaza. Per ottenere una convivenza almeno parzialmente pacifica non basta la minaccia della “deterrenza”, cioè della distruzione delle risorse nemiche, bisogna lavorare ogni giorno sul terreno per disabilitare le minacce terroriste come Israele fa da sempre in Giudea e Samaria. In questa crisi è essenziale distruggere completamente i terroristi e mantenere a Gaza quello stesso livello di sorveglianza attiva. La guerra è contro Hamas, ma bisogna comprendere che la grande maggioranza dei palestinesi lo appoggia e vi sono movimenti terroristi concorrenti, mentre purtroppo non movimenti o personalità influenti che rifiutino il terrorismo e vogliano una pace vera con Israele. E sullo sfondo il problema vero è l’Iran che finanzia e arma chiunque cerchi di distruggere Israele.

    La posizione americana

    Gli Usa non hanno capito tutto questo e non lo vogliono accettare. Per loro Hamas e compagnia sono movimenti politici che certo, possono fare terrorismo e vanno scoraggiati dal farlo, ma con cui bisogna parlare e cercare di mettersi d’accordo: in prospettiva “partner per la pace”. Lo stesso per l’Iran. Il terrorismo nasce dal fatto che le aspirazioni statali dei palestinesi non sono soddisfate e dunque per avere la pace bisogna realizzarle. Bisogna credere alle intenzioni pacifiche proclamate dagli arabi in occidente e non badare alle minacce in arabo. La popolazione “civile” palestinese è tutta innocente e va aiutata, anche se gli aiuti finiscono quasi tutti ai terroristi. Così anche l’Unrwa. Non bisogna esagerare nelle reazioni, la tregua va perseguita anche se così Hamas conserva missili, le truppe e buona parte del sistema di fortificazioni sotterranee.

    Come si vede le impostazioni sono opposte. Gli Usa, o almeno i Democratici, vogliono sì che Israele viva. Ma, come si espresse una volta Kissinger (che era consigliere di Nixon, quindi di un repubblicano moderato) che “non vinca troppo, o magari perda un po’, perché questo faciliterebbe la pace”. O magari servirebbe a migliorare l’immagine degli Usa. C’è una conciliazione possibile? Gli Usa oggi commettono l’errore politico non raro di credere alla loro stessa propaganda e dicono sempre più chiaramente che la colpa della resistenza israeliana sia di Netanyahu e dei suoi “soci cattivi” Smotrich e Ben Gvir. Cercano di ricattare Israele lesinando i rifornimenti militari e l’appoggio politico. Non si rendono conto che proprio con le loro dichiarazioni forniscono argomenti elettorali al primo ministro che detestano, perché la frase di Golda Meir “meglio condannati che compianti” è profondamente condivisa dal pubblico israeliano, salvo isolatissimi estremisti di sinistra. E non capiscono che qualunque governo dovrebbe prendere lo stesso atteggiamento e che perfino gli stati arabi che rendono omaggio verbale allo stato palestinese in realtà non lo vogliono. Paradossalmente, è proprio l’esperienza e la lucidità politica di Netanyahu, la sua capacità di raggiungere compromessi accettabili, che potrà risparmiare a questa amministrazione l’umiliazione di contraddirsi e fallire clamorosamente abbandonando la difesa di Israele.

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